Secondo il Censis, l’87% degli italiani occupati dichiara di dedicare troppo tempo al lavoro e di aver maturato l’intenzione di ridimensionarlo, diminuirlo, per dedicare più tempo alla famiglia, alle relazioni sociali, ai propri hobby, alla cura della propria salute. Sempre secondo il Censis, il rischio è quello di una nuova cultura della contrapposizione tra lavoro e vita. L’Italia non è rimasta fuori dal fenomeno – nato negli Usa durante la pandemia – battezzato da uno psicologo americano “Great Resignation” (grandi dimissioni). In pratica, dimissioni volontarie da parte di lavoratrici e lavoratori che non necessariamente passano direttamente a un altro impiego. Vuol dire immaginare un cambiamento di vita radicale, a partire dal proprio lavoro.
Considerazioni interessanti intorno ai mutati approcci che abbiamo verso il mondo del lavoro sono contenute in due libri pubblicati recentemente. Il primo ha per titolo “Un bel lavoro. Ridare significato e valore a ciò che facciamo” (Egea editore), scritto da Alfonso Fuggetta, docente di Informatica al Politecnico di Milano, oggi alla guida del Cefriel (Centro di Ricerca e Innovazione Digitale). Fuggetta parte dalle riflessioni su “questa strana società dove si parla di mancanza di lavoro e dove, al tempo stesso, le imprese denunciano la scarsità di personale, a riprova di una distanza che non è solo nelle competenze e professionalità richieste e offerte, ma anche nelle aspettative ed esigenze delle parti”.
Ma che cos’è “un bel lavoro”? Siamo certi che dobbiamo per forza lavorare o forse verrà un giorno in cui lavorare non sarà più necessario e l’automazione ci avrà liberato da tale necessità? Fuggetta enuclea le dieci caratteristiche chiave che fanno di un lavoro “un bel lavoro”, declinandole tra obiettivi individuali e modalità relazionali, tra riflessioni personali e pillole manageriali in materia di scelte organizzative. Vogliamo non solo guadagnare bene, ma anche vivere bene (vedi il fenomeno delle “grandi dimissioni”). E vogliamo ritrovare un senso alle azioni che svolgiamo.
Anche le riflessioni del secondo libro si muovono nello stesso territorio. Il titolo è emblematico: “Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo” (HarperCollins editore), scritto da Maura Gancitano e Andrea Colamedici, i due creatori di TLON, che è nel contempo casa editrice, libreria-teatro e progetto di divulgazione culturale e filosofica (tlon.it). “Siamo oppressi dal lavoro ma anche del lavoro innamorati, rapiti, vittime di una sindrome di Stoccolma aziendale”, dicono gli autori. “Perché oggi il lavoro è tutto, e tutto pare essere lavoro”. Eppure, mai come oggi, la sensazione è che questo lavoro non basti. Mai come oggi lavorare pare non avere più un senso. Attraverso esplorazioni storiche e ricognizioni del presente, gli autori ci spingono a riflettere sulle origini e gli sviluppi di un concetto, quello di lavoro, sfaccettato e controverso. Invitano a ribaltare la prospettiva sulle retoriche del privilegio o del merito. E ci spingono a immaginare una soluzione, un mondo in cui sia possibile cambiare.