Il 9 maggio saranno ormai trascorsi 45 anni dalla tragica conclusione della vita di Aldo Moro. Enrico Farinoni in un’intervista esclusiva ci racconta quali insegnamenti dovremmo ricordare anche dopo tutti questi anni.
Abbiamo chiesto a Enrico Farinone, già parlamentare e autore di alcuni saggi sullo statista pugliese (è in libreria il recente “Aldo Moro. Gli ultimi discorsi. Mantova e Benevento, 1977 – Iacobelli editore”), quale sia, a suo avviso, l’eredità più attuale del pensiero moroteo.
L’insegnamento politico di Moro è talmente vasto che certo non sarò certo io a poterne individuare i tratti principali e ancora attuali. Dirò però che se da un lato non si può trasferire il suo pensiero ai giorni d’oggi senza la necessaria contestualizzazione, dall’altro è a mio parere utile e assolutamente non fuorviante evidenziare alcuni – fra i tanti – suoi lineamenti di fondo, quanto mai utili (se solo li si volesse ascoltare) nell’Italia odierna. Ne segnalerei, qui, almeno tre.
Innanzitutto quella che definirei l’etica del dovere.
La sua frase ammonitrice pronunciata al Congresso Nazionale della Democrazia Cristiana nel 1976 (e non, come spesso viene detto, nel suo ultimo discorso, quello ai gruppi parlamentari dc il 28 febbraio 1978) è giustamente ricordata e citata: “Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”. Lo dico perché siamo caratterizzati da un tempo nel quale da noi in occidente prevale “l’ideologia dei diritti” invocati e pretesi quale principale esigenza della modernità. Ora, senza voler nulla togliere, naturalmente, ai diritti e alla loro tutela, a me pare che le difficoltà crescenti nelle quali ci troviamo e ancor più ci troveremo a navigare imporrebbero (e io credo imporranno) una maggior consapevolezza – che era ben presente nelle generazioni a noi precedenti, quelle che vissero il dopoguerra e costruirono le basi del clamoroso sviluppo economico degli anni successivi – di quanto sia necessario, inevitabile assumersi dei doveri, individuali e collettivi, se si vuole far crescere una collettività, una società.
Moro parlava ai suoi contemporanei, ma quella stessa frase, con quelle stesse parole uno statista dovrebbe avere il coraggio di pronunciarla anche oggi, nel nostro attuale contesto storico nazionale. Solo che nessuno lo fa perché siamo tutti vittime dei social, della necessità spasmodica di un like, di un consenso a buon mercato, tanto facile quanto inutile, superficiale.
Concetto chiaro. Ma di non facile applicazione, effettivamente. Un altro insegnamento o se vuole, un’altra parola chiave?
Confronto.
Stiamo assistendo – complice credo anche la legge elettorale maggioritaria, ma non solo – ad una radicalizzazione delle posizioni politiche che non prelude a nulla di buono. E’ stato detto: la politica fatta sui social, nella quale alcuni politici sono davvero “cattivi maestri” conduce ciascun suo fruitore a rinchiudersi in un recinto nel quale sono ammessi solo ed esclusivamente i propri “amici”, che devono naturalmente avere le tue stesse idee o se possibile le tue idee ma ancor più radicalizzate. Nel momento in cui uno di loro accenna a un cambio d’opinione viene inesorabilmente “bannato”, cancellato, espulso. Se va bene. Perché se va male partono gli insulti. Ma ancor peggio è il vedere che anche la semplice disponibilità a cercare di comprendere le idee e le affermazioni dell’avversario, del competitor viene negata, quasi fosse un tradimento.
La “politica del confronto” era invece l’antitesi di tutto ciò. Era la disponibilità, paziente, a verificare le tesi altrui. Finanche quelle di chi si poneva in posizione alternativa, antitetica alla propria (come fu in quegli anni la sfida fra DC e PCI). Fu attraverso la prassi del confronto che nel tempo del primo centro-sinistra degli anni Sessanta con i socialisti e in quello della solidarietà nazionale di fine anni Settanta con i comunisti che Moro guidò quel processo di “allargamento delle basi dello Stato democratico”.
Il vocabolo immediatamente successivo è ovviamente “mediazione”.
Che non ha un significato negativo, tutt’altro. In politica è addirittura essenziale. Dove non vi è mediazione, vi è conflitto. Senza la volontà di mediazione si giunge alla guerra. Così fra gli individui, così fra gli Stati. Ciò non significa deflettere rispetto ai propri principi. Anche la mediazione ha dei limiti. In una dittatura il popolo che anela alla libertà la combatte, è evidente. Ma in un sistema democratico il confronto fra le opinioni può talvolta – non sempre, ma se c’è la buona volontà, spesso – produrre esiti positivi, soluzioni innovative, risultati migliori nell’interesse della collettività e non di una sola sua parte. La mediazione o, meglio, l’attitudine alla mediazione è dunque un valore positivo. Non stiamo parlando di un “compromesso” al ribasso. Al contrario stiamo parlando di un punto di accordo “in avanti”, nel senso che le parti hanno fatto un passo in direzione delle altre per individuare un possibile fattor comune. Oggi questa logica può apparire invecchiata e invece è attualissima. E lo sarà sempre. Da questo punto di vista il pensiero moroteo è di una modernità straordinaria.
Confronto e mediazione, dunque. Oltre a dovere. A questo punto ce ne indichi una quarta, magari riassuntiva di tutte queste.
Moro è famoso per alcune sue espressioni, o “formule politiche”, divenute celebri, a cominciare dalle famose “convergenze parallele”. Venne spesso criticato per questo, accusato di fumisterie e dell’utilizzo di un vocabolario oscuro, difficilmente comprensibile ai più. In realtà – posso dirlo perché ho letto moltissimi suoi discorsi e non loro semplici citazioni – in Moro l’utilizzo delle parole, delle punteggiature, delle frasi è certo complicato ma sempre chiarissimo, per chi ha la volontà di leggere i suoi interventi senza pregiudizi. Ed è chiarissimo perché Moro parla dopo aver ascoltato, letto, riflettuto. È quella che lui chiama (ecco la quarta espressione, non esaustiva di tutte ma certo assai rilevante nel ragionamento moroteo) “intelligenza degli avvenimenti”.
Il costante contatto con i suoi studenti all’Università certamente lo aiutava in ciò, ma di più v’era un metodo e ancora di più una volontà di conoscenza di quanto accadeva nella società, nel tessuto vivo del quotidiano dei singoli cittadini e delle famiglie. Quest’uomo così schivo, che a taluni appariva distante era invece attentissimo al sociale, così come su un versante più allargato era attentissimo allo scenario internazionale. Un’intelligenza vivida, dunque propensa a comprendere le cose che accadevano. Riflettendo su di esse per poterle, se possibile e quando possibile, guidarle.
Resta memorabile, ed è solo un esempio, il suo discorso al Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana del novembre 1968, nel quale cercò – unico fra i politici italiani – di comprendere nel profondo le ragioni del movimento studentesco di contestazione che avrebbe provocato un grande cambiamento nella società italiana. Un esempio straordinario di “intelligenza degli avvenimenti”: “Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai”. E così, effettivamente, fu.
Lo ha già scritto il saggio su quel discorso?
No, però mi ha dato una buona idea…