Benino è andato il Terzo polo: partito con la poco realistica ambizione di riportare al governo Mario Draghi, orfano di un’agenda di governo che nessuno (nemmeno il PD) ha voluto difendere fino in fondo, puntava a un esito a due cifre (non meno del 10%) per risultare decisivo nella scelta parlamentare del prossimo governo. Alla fine si è ritrovato con poco più del 7%, sia alla Camera che al Senato, che è un buon risultato per una nuova formazione politica ma che non è sufficiente per assicurargli un ruolo decisivo, com’era nelle sue aspettative. Il punto di forza su cui puntava l’alleanza fra Italia Viva e Azione era la coerenza con un impianto post-ideologico e riformista, che avrebbe dovuto consentirgli di distinguersi chiaramente sia dal centro-destra sia dal centro-sinistra. Viceversa, nell’immaginario dell’elettorato così come nella percezione degli osservatori, è figurato come un’implicita estensione del centro-sinistra, e in particolare di quel Partito democratico dal quale ha tenuto fino all’ultimo a distinguersi. Fondamentale sarà capire che destino avrà la scommessa di un Terzo polo che, nel quadro di un sistema dei partiti ancora caratterizzato da una forte, strumentale quanto sterile polarizzazione ideologica, potrebbe in prospettiva rappresentare una via di uscita per un’Italia più avanzata e moderna. Tuttavia il futuro riposa sulle ginocchia di Giove e dire oggi se questa scommessa potrà avere qualche chance è troppo prematuro.
Il vero sconfitto di questo voto, infine, è il Partito democratico, prima di tutto per l’incomprensibile connotazione della sua proposta politica, prigioniera di un’indecisa oscillazione fra la timida difesa di una linea di governo riformista, incarnata più dall’esperienza del governo Draghi che da quella del Conte II, e la anacronistica battaglia in difesa della Costituzione, versione italiana di un patto repubblicano che forse Letta ha conosciuto durante il suo soggiorno francese ma del tutto estranea alla realtà italiana. Si è così ritrovato a capo di una coalizione “dimezzata”, non solo per la defezione all’ultim’ora di Calenda, ma anche per la scarsa consistenza elettorale dei suoi compagni di sventura, la sinistra ecologista di Fratoianni e Bonelli che non è andata oltre il 3,5%, Più Europa che per un soffio non ha raggiunto il 3% e Impegno civico di Di Maio che si è fermato a un inesistente 0,5%. Letta, con l’onestà intellettuale prima ancora che politica che lo contraddistingue, ha già messo a disposizione il suo mandato, avviando quella fase congressuale (statutariamente già prevista per il prossimo anno) che ancora una volta dovrebbe assumere la forma di un momento costituente. Anche se va detto che, forse, i problemi del PD sono ben più complessi e irrisolti di quelli che permetterebbe di superare un congresso e una nuova elezione del segretario attraverso le primarie. E la retorica del “nuovo inizio” sembra ormai insufficiente a dare a quel partito la fisionomia identitaria e progettuale di cui ha bisogno. I nodi del PD sono ormai tutti venuti al pettine: un’amalgama mal riuscita, come diceva all’epoca della sua nascita Massimo D’Alema, che non ha mai davvero concluso il percorso indispensabile a definirne chiaramente che cos’è, che interessi difende e quale visione di società intende affermare. Il problema dell’amalgama, inoltre, tende a riproporsi come nel gioco della matrioska, nella reiterazione del conflitto fra le sue diverse anime (riformista, socialdemocratica e radicale) incapaci di trovare un minimo comune denominatore e una pacifica forma di convivenza. Congresso e primarie rischiano perciò di rappresentare quell’eterno ritorno dell’eguale che già oggi, con le candidature alla segreteria che si stagliano all’orizzonte (Bonaccini, Orlando e Schlein), lascia intendere un finale scontato e sterile.
Un ultimo sconfitto del voto del 25 settembre è infine l’elettorato, con un livello di astensioni pari al 36%, ben nove punti percentuali in più delle elezioni politiche del 2018. Un dato che ci riconsegna un sistema politico profondamente malato, soprattutto se si pensa che la bassa affluenza si combina con un voto, soprattutto quello a favore di Fratelli d’Italia e Movimento 5 Stelle, che si avvantaggia chiaramente di una spinta protestataria anti-governo, che la Meloni ha saputo capitalizzare al meglio nel corso della Legislatura appena conclusa e Conte ha opportunamente (e opportunisticamente) alimentato con la scelta di togliere la fiducia al governo Draghi. Il combinato disposto di astensioni e voto di protesta è un aspetto che rischia di minare nel profondo anche la maggioranza uscita dalle urne. E il caldo autunno che ci aspetta, con l’aumento delle bollette e la perdita di potere di acquisto dei redditi dovuta all’inflazione galoppante, sarà assai difficile da gestire anche per il prossimo Presidente del consiglio. Con un problema in più: che questo voto ha davvero rappresentato l’ultima via di uscita possibile.