La convocazione delle elezioni per domenica 25 settembre prospetta una campagna elettorale del tutto inedita, che in gran parte si terrà con il solleone di agosto e sotto l’ombrellone. Le cronache narrano di partiti che si apprestano al voto in maniera quasi del tutto impreparata. Del resto, alla crisi del governo Draghi si è arrivati in modo a dir poco rocambolesco. Un po’ per caso, come Conte, che fra “penultimatum” e “punti inderogabili ma non tanto”, ha capito tardi che si era spinto troppo in là. Un po’ per azzardo, come Salvini, che ha deciso di venire allo scoperto annusando il prossimo successo del centro-destra, ma senza avere certezze sul risultato elettorale atteso dal suo partito; e come Berlusconi, che si è fatto tirare dentro al gioco, per ritrovarsi fra due fuochi populisti, quelli di Lega e Fratelli d’Italia, con la speranza di avere la meglio investendo sull’inadeguatezza di Salvini e Meloni e fidando nel fatto che “fra i due litiganti, il terzo gode”. Un po’ per calcoli di convenienza, come Giorgia Meloni, l’unica certa di conseguire un successo elettorale che, insieme alla coalizione di centro-destra, potrebbe proiettarla al governo. Però nessuno degli artefici della crisi, questo è abbastanza evidente, sembra avere un’idea precisa di dove ci sta portando.
Letta, che certamente avrebbe preferito portare la Legislatura alla sua scadenza naturale, dopo aver compreso che puntare sulla “Agenda Draghi” non sarebbe stato di per sé sufficiente, sta cercando di mettere insieme uno schieramento che da Speranza a Fratoianni dovrebbe arrivare fino a Calenda, Bonino, Tabacci e Di Maio (con l’incognita Renzi, ancora oggi indigesto per larga parte del gruppo dirigente democratico). Con un ventaglio di posizioni che si fatica ancora a capire come potrebbe stare coerentemente insieme dal punto di vista programmatico, dall’invio di armi all’Ucraina al reddito di cittadinanza. Non per niente, Calenda da una parte e Renzi dall’altra non mancano occasione per ribadire la distanza siderale che li separerebbe dal Movimento 5 Stelle e Sinistra Italiana. E nonostante il segretario del PD continui a rivolgere appelli all’unità ad Azione e Italia Viva, uscite come quella sulla tassa patrimoniale per i plurimiliardari sembrano proprio fatte apposta per marcare una differenza fra sinistra e centro. Il respiro internazionale di Letta sarà tale da fargli ritenere una cosa del tutto normale introdurre una tassa patrimoniale che, detto per inciso, è anche una cosa che la Commissione europea ci chiede da almeno una decina di anni, per risolvere il problema del nostro ingente debito pubblico. Però in Italia chi tocca i fili della patrimoniale muore, tant’è che i nostri partiti politici hanno sempre puntualmente fatto cadere nell’oblio i richiami provenienti su questo tema da Bruxelles.
E nel centro-destra non stanno di certo meglio, come dimostrano le difficoltà incontrate dalla leader di Fratelli d’Italia nel riaffermare la regola aurea già condivisa in occasione delle ultime elezioni politiche, in base alla quale in caso di vittoria elettorale il Presidente del consiglio verrebbe scelto dal partito del centro-destra che avrà preso più voti. Tali erano le resistenze di Berlusconi e Salvini a un’eventuale Premiership della Meloni che inizialmente né Forza Italia né la Lega sembravano intenzionate ad accettarla. Una questione di fiducia, si dirà. Del resto, si tratta della stessa fiducia (evidentemente al momento assente) che qualche giorno fa ha indotto la Meloni a invitare i suoi partner di coalizione a non sostenere proposte programmatiche prive di una reale fattibilità. A cosa avrà voluto alludere? Alle pensioni minime a mille euro al mese che ha promesso Berlusconi? O alla pace fiscale con tanto di rottamazione delle cartelle esattoriali che ha messo sul piatto Salvini? Quando poi, la stessa Meloni non può considerarsi del tutto esente da critiche, se da Bruxelles il Partito Popolare Europeo fa sapere che per Palazzo Chigi sarebbe sicuramente meglio puntare su una figura come Antonio Tajani. E se, nonostante le garanzie fornite da Fratelli d’Italia sul fronte dell’Alleanza atlantica, siano davvero pochi quelli che si sentono parimenti rassicurati rispetto alla collocazione nell’Unione europea. Per non dire della fiducia che riscuote Salvini rispetto all’ipotesi di un ritorno al Viminale: la sua proposta di indicare prima del voto i principali ministri di quella che sarà la futura compagine di governo del centro-destra è stata immediatamente respinta al mittente da Forza Italia e Fratelli d’Italia, che non hanno alcun intenzione di regalare al segretario della Lega il Ministero degli Interni, per permettergli di farne l’avamposto di una battaglia all’immigrazione clandestina di grande visibilità a basso costo.
Si prepara dunque una campagna elettorale in cui partiti e leader politici saranno più attenti a denunciare le contraddizioni altrui (dato che non mancano) invece che a risolvere le contraddizioni proprie. E lo faranno prevalentemente utilizzando le corde della demagogia e del pregiudizio ideologico. Non è infatti un caso che nel centro-sinistra si stia rispolverando la trita retorica del “pericolo delle destre” e che nel centro-destra non si perda occasione per evocare “i soliti comunisti, tutti intervento statale e tasse”. Ma con tutti i problemi che assillano questo paese, una bella campagna elettorale all’insegna dell’uso demagogico di un’ideologia di accatto era proprio quello che ci mancava.