Intervista esclusiva
Trent’anni di caos elettorale, sembra questo il refrain degli ultimi tre decenni della politica italiana con tentativi, a quanto pare mal riusciti, di stabilizzare un sistema attraverso una legge elettorale e altri giochi di Palazzo. Ciò al quale abbiamo assistito, è stato un lento e inevitabile declino delle istituzioni, in primis il Parlamento e di conseguenza il Governo. Partiti che attraverso catartiche giravolte hanno tentato di rinnovarsi nel tentativo di recuperare, qua e là, un voto in più dell’altro. Nel frattempo, anche l’arrivo di un soggetto politico del tutto nuovo che, almeno fino a ora, ha scombussolato i piani di chi aveva ragionato in termini bipolari, non nel senso psichiatrico del termine…, per la gestione della “cosa pubblica”. Di questo e di tanto altro, ne abbiamo parlato con Nicola Pasini, professore associato di Scienza Politica presso il Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università degli Studi di Milano, il quale ci ha fornito un quadro esaustivo e approfondito dell’attuale situazione politica nazionale.
L’attuale sistema elettorale certamente non risolverà i problemi di rinnovamento parlamentare che tutti auspicano. Secondo lei, oggi, in Italia che sistema elettorale si dovrebbe adottare al fine di realizzare una vera stabilità politica e di governo?
Da trent’anni esatti, dopo il collasso del sistema politico italiano avvenuto, per fattori precipitanti di natura internazionale e domestica, nel 1992, il tema della legge elettorale è il mantra rispetto al (mal) funzionamento del sistema politico italiano. Si ritiene che senza una legge elettorale adeguata, il sistema politico italiano si blocchi continuamente. Di qui la legge elettorale interpretata, non solo dai partiti politici, ma anche dal mondo dei media, come la madre di tutte le riforme. Credo che la questione della legge elettorale sia un falso problema, o meglio che tutto dipenda dalla legge elettorale sia vero solo in parte. Dalla cosiddetta legge Mattarella del 1993, la creatività dei nostri legislatori non è di certo venuta meno: si sono applicate diverse formule, ma alla fine la stabilità dei governi è venuta sempre meno. Prima con un sistema misto, prevalentemente maggioritario, che non ha prodotto la maggior governabilità auspicata. Poi con sistemi proporzionali corretti con premi di maggioranza, fino ad approdare alla cosiddetta Legge Rosato, mista anch’essa con 1/3 di assegnazione dei seggi attraverso il sistema uninominale e 2/3 con un sistema proporzionale. In ogni caso, in assenza di altre caratteristiche del sistema politico e che riguardano prevalentemente la strutturazione del sistema partitico, le leggi elettorali, anche se producono certi risultati in termini di chi vince e di chi perde, non sono in grado di vincolare i comportamenti degli attori partitici, sia dentro sia fuori il Parlamento. Faccio solo un esempio: con la cosiddetta legge Calderoli, nel 2006, nel 2008 e nel 2013 abbiamo avuto tre esiti completamente differenti: 2006 Unione “marmellata” (una coalizione molto eterogenea e una leadership, Prodi, estremamente debole, che si è infranta dopo neanche 2 anni); 2008 quasi bipartitismo (Pdl 38%, PD 34%: il 72% dell’elettorato si è riconosciuto in due partiti con due leader, al tempo molto forti e riconosciuti, Berlusconi e Veltroni); 2013 tripolarizzazione dovuta all’exploit del Movimento 5 Stelle che ha eroso consenso tanto alla coalizione di centrodestra quanto a quella di centrosinistra. Molti ritengono che solo una formula elettorale maggioritaria a doppio turno (se non proprio alla francese, simile alla legge per l’elezione dei sindaci nei comuni sopra i 15.000 abitanti) risolva in un colpo solo il tema della governabilità e della frammentazione, ma essendo il nostro sistema partitico molto instabile e poco strutturato, non è detto che si realizzino i risultati auspicati. Inoltre, una parte dei partiti politici non ha una strategia degli incentivi tale da poter accettare tale formula elettorale.
Sono, quindi, sempre più convinto che siano altre le cause che da tempo alimentano sia l’ulteriore frammentazione sia l’instabilità governativa. Molto brevemente esse hanno a che fare più che con l’offerta, con la domanda politica: partiti molto deboli dal punto di vista ideale, strategico, programmatico e organizzativo, e la loro conseguente incapacità di mantenere per il medio periodo un proprio elettorato di appartenenza (anche se questo è un fenomeno ormai strutturale che sta avvenendo in gran parte dei regimi liberal-democratici). Questo porta i partiti a ragionare prevalentemente in termini tattici e di breve periodo, la cui finalità è la mera sopravvivenza e la rendita di posizione in termini di potenziale di ricatto e di coalizione. Inoltre, assistiamo spesso a una dinamica distorta nei rapporti tra governo e parlamento, istituzioni entrambi deboli e incapaci di riformarsi (non è di certo la riduzione del numero di parlamentari la panacea di tutti i mali…). A fronte di un ceto politico spesso non all’altezza e incompetente, più volte si è dovuti ricorrere, proprio per incapacità del ceto politico professionistico (troppo spesso liquidato come la causa di tutti i mali della politica italiana…), a figure esterne (prevalentemente provenienti dalla Banca d’Italia: Ciampi, Dini, Draghi solo per citare i presidenti del consiglio) dotate di maggiore credibilità e reputazione anche internazionale in qualità di supplenti nei confronti della politica. Ciò ha creato però una competizione e una mancata fiducia tra i partiti e tali “riserve della Repubblica” e questo lo si è visto molto bene negli ultimi mesi del Governo Draghi, soprattutto a partire dal giorno dell’elezione del presidente della Repubblica fino al giorno delle dimissioni del Presidente del Consiglio.
Mi sembra di capire che siamo di fronte a fragilità di natura strutturale. Quali sono secondo lei quelle prevalenti e che contraddistinguono il sistema politico italiano come un sistema politico “peculiare”?
In modo sintetico e per punti direi:
a) La fragilità è un tratto peculiare del sistema politico italiano per come si esprime sia attraverso le ricorrenti difficoltà di ristrutturazione del sistema dei partiti, sia rispetto agli ostacoli che contraddistinguono la formazione degli esecutivi di coalizione per poi riflettersi nella scarsa capacità di governo, oltre che in una produzione inefficace delle politiche pubbliche (non è stato il caso del Governo Draghi che, anzi, ha tentato di invertire questa tendenza di lungo periodo volta all’incapacità di produrre un rendimento istituzionale soddisfacente).
Il confronto politico tra i diversi partiti mette, quindi, in luce l’esistenza di profonde difficoltà di natura politico-culturale che attraversano il nostro sistema dei partiti lungo tutto l’arco temporale dell’esperienza repubblicana (il problema, come si dice in questi casi, viene da molto lontano…).
b) L’attuale sistema multipartitico – che nel corso della cosiddetta Seconda Repubblica (brutto termine, non avendo fatto una riforma costituzionale, non esiste nessuna Seconda Repubblica) è stato a lungo (almeno fino al 2013) incapsulato in due coalizioni eterogenee e poco coese (dando luogo a una competizione bipolare che ha generato alternanza, ma non capacità di governo) – rappresenta un portato irriducibile della frammentazione. Essa stessa rappresenta una caratteristica strutturale del sistema politico italiano, che trascende i vincoli istituzionali, la forma di governo, le prassi costituzionali, le leggi elettorali, ecc., presente dal 1948. Gli ultimi trent’anni hanno cambiato sicuramente la configurazione del sistema dei partiti, ma ciò non ha comunque permesso l’approdo a un sistema stabile.
c) Inoltre, spesso il sistema partitico si pone nei confronti del processo di formazione delle diverse politiche pubbliche, come esempio paradigmatico dell’irriducibile frammentazione intra e inter partitica da un lato e dall’omogeneità/disomogeneità coalizionale dall’altro. Ciò permette non solo di capire “chi decide che cosa”, ma soprattutto di comprendere il grado di conflittualità latente all’interno dei partiti e delle coalizioni che via via si sono create e che controllano le arene di policy making. Quando un tema divide rispetto alla presenza di diversi orientamenti nella società, come accade nel caso di molte politiche pubbliche (solo per fare qualche esempio recente: politica economica e della concorrenza, politica energetica, politica fiscale), il sistema partitico tende a strutturarsi attraverso fratture che generano nuovi confini e inedite appartenenze. Sulla base di questa riflessione, la frammentazione (e polarizzazione) presente nel sistema partitico italiano influenza il processo di policy making, condizionando in maniera permanente stabilità e coesione degli esecutivi.
d) Appare chiaro come gli ultimi trenta anni della vicenda politica italiana siano stati contrassegnati dal tentativo delle élite (che a vario titolo si sono rese protagoniste del cambiamento) di transitare la democrazia italiana verso una soluzione simile alle principali democrazie europee. Tentativo fallito per diversi motivi, fra i quali ne spicca uno, particolarmente evidente, e cioè che le fratture del sistema politico italiano erano e restano troppo profonde e difficilmente componibili per favorire tale soluzione, impedendo un’articolazione dell’offerta politica in grado di essere semplificata attraverso una logica di competizione strutturata in forma bipartitica/bipolare. Ma non solo. L’orientamento delle élite che hanno cercato di promuovere il cambiamento, si è trovato a scontare la resistenza di soggetti politici e istituzionali che hanno potuto opporsi alle trasformazioni del sistema politico a partire da posizioni di vantaggio (si veda il fallimento del referendum Costituzionale del 4 dicembre 2016, voluto dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi). Si è così determinata una sorta di situazione critica dove a diversi settori di élite e masse favorevoli ad una modernizzazione di sistema (attraverso le diverse riforme) si sono contrapposti comportamenti, soprattutto in ampi settori del ceto politico professionalizzato, volti a tutelare lo status quo, impedendo alla politica, proprio nel momento in cui avrebbe potuto ridefinirsi secondo una nuova forma, di portare a compimento questo processo.
e) Molti orientamenti conservativi operano in sede legislativa, ossia laddove la decisione prende prevalentemente consistenza. In generale, nell’arena parlamentare vi sono posizioni tendenti a preservare la visibilità delle singole componenti a scapito delle coalizioni, secondo una prassi chiaramente refrattaria alle pressioni maggioritarie del confronto per schieramenti alternativi. Allo stesso tempo, le profonde divisioni ideologiche che permangono nel sistema politico attuale, impedisce la costruzione di quella cornice di valori condivisi indispensabile al funzionamento di una democrazia matura. La congenita fragilità del contesto istituzionale, troppo spesso strumentalmente utilizzato come terreno di contesa politica, ha fatto il resto, aggiungendo all’assenza di valori condivisi la debolezza di istituzioni incapaci di rappresentare un punto di riferimento comune.
f) La frammentazione politica è, quindi, la cifra distintiva del sistema politico italiano. La struttura alla base della frammentazione del sistema dei partiti, nel corso della lunga transizione italiana, è infatti restata sostanzialmente immutata, presentando divisioni che, nonostante i timidi tentativi di riforma intervenuti sul fronte della legge elettorale, come in altri ambiti, si sono costantemente riprodotte. Nel nostro paese, il sistema politico si contraddistingue da sempre come terreno privilegiato dell’iniziativa dei partiti, che malgrado sfide e cambiamenti, hanno continuato a mantenere un controllo ampio, diversificato e capillare sulle risorse e sui processi decisionali. E questo lo si è visto che nelle ultime vicende del Governo Draghi, attraverso una divergenza tra il presidente del Consiglio e i suoi principali ministri (per lo più ‘tecnici’) e i partiti politici di Unità Nazionale che giorno dopo giorno, facevano di tutto per disconoscere le azioni proposte dal Governo.
g) In Italia, le decisioni più importanti vengono prese dal personale amministrativo e politico selezionato, scelto e reclutato attraverso i partiti, o in via diretta, per mezzo di elezioni su liste concorrenti formulate dai partiti stessi, o in via indiretta, per via di nomine di competenza dei vertici politici delle amministrazioni, ai diversi livelli. La contrazione dello spazio occupato dai partiti, soprattutto sul terreno delle aziende partecipate e degli enti del cosiddetto parastato, non ha modificato questa tendenza fondamentale. Da sempre, salvo momenti di grave emergenza, le politiche pubbliche vengono decise, ai diversi livelli, nazionale e locale, all’interno dei partiti che costituiscono la coalizione di governo, attraverso negoziazioni fra quello che di volta in volta è il principale partito di governo e i suoi alleati.
h) Il sistema politico si contraddistingue, quindi, per un’endemica propensione a governare la segmentazione degli interessi nella società attraverso la frammentazione nella rappresentanza, mettendo così a disposizione ampi margini di manovra per diversi veto player – sociali, politici e istituzionali – in grado di esercitare un elevato potere di condizionamento sugli esiti finali del processo decisionale. In questo modo, la frammentazione degli interessi derivata dallo spettro articolato e difficilmente componibile delle forze sociali trova il suo riflesso nella frammentazione politica presente nelle pieghe di una rappresentanza sempre meno capace di una sintesi di indirizzo, per poi riprodursi all’interno dei processi decisionali e nelle relazioni dentro e fuori dai partiti, così come fra partiti e coalizioni.
i) Infine, la frammentazione (inter-partitica, infra-partitica e simmetricamente intra-coalizionale) genera un elevato potere di veto di forze politiche di ciascuno degli schieramenti e impedisce una dialettica fra partiti organizzata intorno a opzioni chiaramente alternative, le cui decisioni riflettono posizioni di principio o di coscienza. La polarizzazione, invece, trasferisce parte della competizione partitica su un terreno puramente ideologico, sospendendo il confronto intorno a soluzioni concrete (si vadano, da ultimo, le posizioni sulla politica energetica e di conseguenza ambientale). Più in generale, sia la frammentazione partitica sia la polarizzazione ideologica rappresentano una fonte di rendita di posizione, che per gli attori politici significa anche tentare di conservare un consenso di natura prevalentemente identitaria.
Negli ultimi giorni, tra “stop and go”, tra patti sottoscritti il mattino e venuti meno la sera, l’offerta politica oggi si presenta in questo modo: una coalizione di centro destra che secondo i sondaggi è in vantaggio trainata da Fratelli d’Italia con la sua leader Giorgia Meloni; una coalizione di centro sinistra dominata dal Pd alleato ad altri partiti minori di sinistra; il Movimento 5 Stelle alla ricerca di una identità perduta durante l’ultima legislatura e infine il cosiddetto terzo polo, i cui protagonisti sono le due forze politiche che, sia pur minoritarie dal punto di vista del consenso elettorale, sono quelle più vicine alla cosiddetta Agenda Draghi e rappresentate da Calenda/Renzi. Tutto fluido.
Come vede questa anomala campagna elettorale estiva?
Per ora siamo all’assestamento dell’offerta politica in vista della campagna vera e propria che sarà molto breve e seriamente prenderà il via al rientro dalle vacanze della maggior parte degli italiani. In questi giorni assistiamo, oltre ai soliti tentativi di delegittimazione reciproca tra coalizione e partiti, alla negoziazione all’interno delle coalizioni o all’interno dei singoli partiti per il posizionamento dei singoli candidati nei colleghi uninominali considerati vincenti (sulla base dei sondaggi) dai singoli attori e nelle circoscrizioni dove i partiti si presentano con le proprie liste.
In breve:
– il centro destra è prevalentemente rappresentato da forze politiche (come FdI e Lega) tipiche dei partiti e movimenti sovranisti e nazionalisti in molti paesi europei con un profilo conservatore (e reazionario) rispetto a molte issues politiche: dai diritti civili, all’Europa, all’immigrazione ecc. Circa la politica estera, la posizione di Lega e FI è molto meno vicina alla Nato (sirene filo russe?) rispetto alle dichiarazioni di Meloni che a parole si presenta molto filo atlantista (e da subito, il 24 febbraio scorso, pro Ucraina). Vedremo nel corso della campagna elettorale se il programma di coalizione prenderà coerenza soprattutto rispetto ai vincoli imposti dall’Agenda Draghi (a partire dal PNRR) e alle priorità in termini di politica economica e fiscale, oltre alla politica estera;
– il centro sinistra è dominato dal Pd, il partito più ‘istituzionale’ e contemporaneamente alla ricerca perenne di una identità tra la vocazione socialdemocratica (prevalente all’interno del partito), cattolico-popolare e liberal (minoritaria e incapace, dai tempi di Veltroni segretario, di imporsi). La mancanza di coraggio nella scelta identitaria (chi siamo e che cosa vogliamo), fa del Pd e dell’intera coalizione un arcipelago incompiuto e spesso poco attraente nei confronti di un elettorato che vada oltre i propri confini geografici (Emilia Romagna e Toscana, i principali centri urbani e metropolitani) e di appartenenza categoriale (prevalentemente il settore pubblico). In ogni caso, sia dentro il PD sia nella colazione, molte scelte circa le alleanze (si veda il rapporto, per ora interrotto, con il M5S) hanno creato una conflittualità latente che potrebbe esplodere subito dopo il 25 settembre;
– il M5S è alle prese sia con un problema di leadership, essendo il suo presidente, Giuseppe Conte, molto poco rappresentativo e incisivo, sia di consenso elettorale, visto che la maggior parte dei militanti ed elettori chiede di ritornare alle origini con una proposta di rottura dei limiti di compatibilità del sistema. Dopo l’esperienza governativa in tutta la XVIII legislatura, il tentativo, estremamente arduo, del M5S è di rivitalizzare un elettorato di opinione fortemente deluso e disincantato rispetto alle aspettative non mantenute dal movimento stesso;
– infine, la scommessa del cosiddetto Terzo Polo. I due leader, Calenda e Renzi, anche per via della loro biografia politica recente (l’uno già Ministro e l’altro Presidente del Consiglio dei Ministri per oltre 2 anni e 9 mesi), si presentano agli elettori come i veri riformisti ed eredi dell’Agenda Draghi. Il loro consenso (per ora molto di nicchia) dipenderà da come sapranno comunicare agli elettori la strategia dal punto di vista della futura strutturazione partitica (se e con quali alleanze), oltre che quella programmatica, all’interno di una cornice ben conosciuta: quella della tradizione politica liberal-democratica.
In ogni caso, i temi scottanti da affrontare, dalla politica estera, al ruolo dell’Italia nell’Unione europea, alla politica economica, energetica, ambientale, dell’immigrazione, ai temi del welfare ecc. sono tali da pretendere dalle forze politiche e dai loro leader in competizione una grande responsabilità e lungimiranza, caratteristiche queste del vero politico!