“Di certo c’è solo che è morto” è l’attacco del pezzo che nel 1950 il giornalista Tommaso Besozzi detta al telefono all’Espresso il giorno del ritrovamento a Castelvetrano del cadavere di Salvatore Giuliano. Un’omicidio dai contorni poco chiari, nella versione ufficiale attribuito ai Carabinieri che stavano partecipando alla cattura del bandito siciliano, sul quale l’intuito di Besozzi permetterà di gettare una luce più chiara, contribuendo a inaugurare il filone di indagine che successivamente porterà alla figura di Gaspare Pisciotta, luogotenente di Giuliano.
Anche in questo caso, all’indomani della ingloriosa fine che il Parlamento ha decretato per il governo Draghi, mercoledì 20 luglio, possiamo semplicemente dire “di certo c’è solo che è morto”. A leggere le cronache di quella giornata, infatti, sembra che l’esecutivo sia morto per necessità o per caso, quando non addirittura per esplicita volontà dello stesso Presidente del consiglio. “Forse era stanco” è la battuta con la quale in un’intervista televisiva al TG2 Silvio Berlusconi ha liquidato questa esperienza di governo. Movimento 5 Stelle, Forza Italia e Lega, gli artefici con il loro voto al Senato della caduta di Draghi, non intendono assumersene la responsabilità politica. Diverse sono le valutazioni di Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia, all’opposizione di questo governo, che almeno non fanno mistero della loro deliberata volontà di mandarlo a casa.
E già questa fuga dalle responsabilità non promette bene. Così come non promette altrettanto bene la sensazione che si deriva sempre dalla lettura delle cronache, che gli autori di questo atto politico, francamente incomprensibile agli occhi degli osservatori internazionali (un lusso che un paese come l’Italia, in questo momento, non avrebbe dovuto permettersi!), non abbiano alcuna concreta idea di dove portare il paese, al di là delle urne.
Per il resto di morto, oltre al governo, c’è anche il Parlamento. Un Parlamento che all’inizio di quest’anno si è dimostrato incapace di gestire la partita dell’elezione del Presidente della Repubblica, trovandosi costretto a pregare Mattarella di dare la disponibilità a un secondo mandato. Così come, a ben vedere, quello stesso Parlamento non era stato in grado di risolvere la crisi del secondo governo Conte, costringendo il Presidente della Repubblica a conferire d’imperio il mandato proprio a Draghi, per impedire che le risorse del PNRR andassero in fumo e che la campagna vaccinale, fino a quel momento gestita in modo a dir poco blando da Arcuri, si concludesse in modo fallimentare, con grave danno per la popolazione italiana.
Sui limiti della politica nostrana si potrebbe discutere a lungo: un contesto istituzionale assai fragile, progressivamente impoverito dal nulla di fatto a cui sono approdati nel corso del tempo i diversi tentativi di riforma; un sistema dei partiti sempre più frammentato, che ha visto alternarsi nel corso degli ultimi trent’anni sigle di partiti e partitini, senza che nessuno di questi riuscisse a definire un chiaro progetto per il futuro del paese.
Eppure, ogni volta, la nostra classe politica sembra fidare nel voto come fosse un momento catartico, provvidenzialmente risolutivo delle gravi patologie che ormai da troppo tempo affliggono il sistema. In questi giorni, Giorgia Meloni, quella che sembra credere più di tutti nelle doti taumaturgiche del voto (anche perché è l’unica davvero rassicurata dai sondaggi), ha annunciato alcuni nomi di una possibile squadra di governo targata centro-destra: Massolo, Ricolfi, Nordio, Belloni. Dopo aver a lungo invocato il primato della politica, ecco che ci propone un’esecutivo infarcito di tecnici! Con queste premesse, è assai difficile immaginare che la politica italiana riuscirà finalmente a darsi una sveglia.