Immaginate un giorno di perdevi in un pensiero, in una elucubrazione. L’album è la storia dell’uomo, di un forte e di un debole, di soprusi e scellerati crimini di guerra, di chiese di campagna e preziosi canti sacri. Popolo Sardo e nativi americani, entrambi gelosi custodi di un sapere antico, entrambi vittime di un progresso imposto arbitrariamente. Le culture si mescolano e si contaminano incessantemente ma la libertà rimane il bene più grande.
“L’Indiano” (album senza nome sulla carta) è un disco moderno, la forma chanson lascia finalmente spazio ad un pop radiofonico più internazionale, più digeribile. Già tre anni prima De André aveva provato con “Rimini” a cambiare rotta, ottenendo un risultato in bilico tra innovazione e pedissequo ritorno al passato. L’album è arrangiato da Mark Harris (“Deus ti salvet Maria”) e Oscar Prudente.
“Quello che non ho” è un blues selvatico (il suono degli spari e degli schiamazzi è relativo ad una battuta di caccia registrata in Gallura). Gli strumenti entrano in modo progressivo: prima solo chitarra e voce, poi basso e batteria, infine pianoforte, cori (gospel) e armonica a bocca. In uscita le tastiere e i synth esplodono riempiendo completamente lo spazio sonoro. Che sia l’incessante avanzare del conquistatore, del cacciatore che bracca la preda per sfruttarne la pelliccia pregiata?
“Canto del servo pastore” è la traduzione sonora di un murales di Villamar. Straordinariamente bella è l’introduzione di pianoforte.
“Fiume Sand Creek” racconta di un massacro, di una strage di donne e bambini. Il basso è una danza sacra Cheyenne. Qui la caccia è diventata a tutti gli effetti carneficina e il dualismo conquistatore-conquistato è più materico che concettuale.
“Franziska” è un cha cha cha mascherato. Sulle note di una danza cubana De André racconta la storia d’amore tra una giovane fanciulla e un bandito sardo. I cori di supporto contribuiscono in modo eccezionale alla riuscita del pezzo.