Da Cernobbio, alla ricerca del tempo perduto: tanta nostalgia di Draghi e moderati auspici per il governo che verrà
Un meeting a suo modo “proustiano”, il Seminario Ambrosetti di quest’anno a Cernobbio, che si è concluso con una tavola rotonda fra i leader in lizza alle elezioni politiche del 25 settembre. Ma su tutti i politici intorno al tavolo moderato dal direttore del Corriere della Sera, si staglia nitidamente la figura del Premier uscente, Mario Draghi. E nella platea, rappresentativa del mondo economico e imprenditoriale italiano che conta, si avverte diffusa la pervicace volontà di ritornare sui passi di un governo che nell’ultimo anno ha restituito dignità e credibilità internazionale al nostro paese. Nella speranza che i vincoli europei e internazionali abbiano la meglio nel modulare le spinte un po’ velleitarie e inconcludenti di chi, all’indomani del voto, avrà il consenso necessario per governare la difficile fase politica che ci attende.
La verità sul confronto la dice l’economista Nouriel Roubini, che ai tavoli del buffet, sentenzia: “Dibattito superficiale, ristretto, senza visione di fronte ai colossali problemi dell’Italia”. Forse perché, da economista, si sarà chiesto dove si potranno trovare le risorse necessarie per realizzare le proposte programmatiche snocciolate dai diversi leader politici. Una domanda che nemmeno il moderatore, per eccesso di zelo o per rassegnazione, si è sentito di fare ai propri interlocutori. Si è dunque trattato di una passerella un po’ incolore e ben poco utile.
Meloni avverte il dovere di assumere una postura da primo ministro, coerente con gli impegni che abbiamo assunto in sede europea e internazionale, quanto meno rispetto al tema delle sanzioni economiche alla Russia, sulle quali tiene a sottolineare che non si arretrerà. Anche se poi scivola sul tema della rinegoziazione del PNRR che, al di là dei vincoli internazionali che caratterizzano il piano (come le percentuali di risorse necessariamente indirizzate, per volere di Bruxelles, verso la transizione ecologica e digitale, che non possono essere modificate), è finalizzato a investimenti strategici e di lunga durata, che nulla hanno a che vedere con la pur prioritaria e impellente necessità di neutralizzare le conseguenze degli aumenti dei costi dell’energia procurati dalla guerra. Avrebbe perciò più senso invocare un nuovo piano europeo finalizzato a questo scopo, una sorta di PNRR dell’energia, che rimettere in discussione non tanto le voci di spesa ma lo stesso impianto costitutivo dell’attuale programma incardinato nella piattaforma Next Generation EU.
Salvini, al di là del coup de théâtre sul Ministero dell’Intelligenza artificiale e della digitalizzazione a Milano (declinazione “nordista” di un suggerimento che gli è venuto da un imprenditore presente in platea), si limita a ribadire la sua posizione sull’inefficacia delle sanzioni alla Russia (che colpiscono più le nostre imprese e i nostri lavoratori di quanto non colpiscano Putin), oltre a spezzare una lancia a favore del “price cap” ai prezzi delle fonti energetiche, che peraltro dimostra di non capire come funziona. Secondo Salvini, infatti, l’imposizione del tetto al prezzo dell’energia, che l’Italia potrebbe praticare anche autonomamente rispetto alle scelte europee, equivarrebbe a un intervento dello stato a copertura del prezzo di mercato eccedente il limite. Una soluzione che, di per sé, non ha nulla a che vedere con il “price cap”, dato che così come l’ha detta non avrebbe alcuna conseguenza sul mercato. Gli si dovrebbe spiegare che, in un’economia di mercato, lo stesso tetto al prezzo del gas o del petrolio può funzionare solo come decisione coordinata fra una serie di paesi (per esempio, i ventisette dell’Unione Europea), a seguito del comune impegno a non approvvigionarsi di energia a prezzi superiori al limite fissato. Una sorta di cartello di autotutela, dato che nessuno ha di per sé il potere di fissare unilateralmente il prezzo delle fonti energetiche in un mercato globale. Ma tant’è, il leader della Lega riesce meglio su altri terreni, come la lotta all’immigrazione clandestina, e non si può pretendere che sappia di economia, o abbia una concezione per così dire liberale del mercato.
Tajani, a parte l’aver corretto Meloni sul Recovery Plan, sostenendo la necessità di un secondo, nuovo PNRR per affrontare i costi dell’economia di guerra (soluzione che, per quel che si è detto, sarebbe sicuramente più utile rispetto alla rinegoziazione dell’attuale piano), appare piuttosto diafano, sfuocato, come l’ombra insipida di Berlusconi, che a sua volta, rispetto a quello di ormai quasi trent’anni fa, è l’ombra di se stesso. Ed è quindi per l’assenza di peso di un partito come Forza Italia, che segue a passi spediti il declino anagrafico e politico del suo sempiterno leader, Silvio Berlusconi, che la voglia di destra, ma di una destra moderata e responsabile, e perché no anche liberale, della platea di Cernobbio, si è rivolta con maggiore simpatia a Calenda. Un Calenda forte del riconoscimento e della stima guadagnata come Ministro dello Sviluppo economico, che interpreta con diligenza la parte del primo della classe prigioniero delle sue stesse ipotesi di scuola, prima fra tutte il messaggio ben poco subliminale per cui il voto al Terzo polo favorirebbe un ritorno a Palazzo Chigi di Mario Draghi. Una soluzione di fatto sospesa nel vuoto, per la sua difficile praticabilità e per non avere nessun “piano B”, nel caso (assai probabile) che un Draghi bis non si possa realizzare.
Letta, dal canto suo, svolge il compito – tanto indesiderato quanto probabile – del sicuro sconfitto, in parte facilitato dal rispetto di una platea che gli riconosce competenza e serietà, anche se non si immedesima nelle sue proposte. Prima fra tutte, per il mondo imprenditoriale, quella riduzione delle tasse sul lavoro, che si può lecitamente attendersi anche da un governo di destra. Più difficile, per Letta, giustificare il senso della sua eterogenea coalizione, fondata su una difesa della Costituzione repubblicana che, vista con gli occhi degli imprenditori di Cernobbio, non sembra affatto in pericolo.
Infine, Conte: both last and least, ultimo in tutti i sensi verrebbe da dire, distante non solo per contenuti, ma anche fisicamente. Collegato da remoto, proprio da remoto predica le sue soluzioni, che più di quelle altrui paiono velleitarie, ovvero prive di copertura finanziaria, lasciando intendere una riedizione dell’intervento statale d’antan che in una platea come quella di Cernobbio può solo sollecitare malumori e critiche. Peraltro, Conte è proprio fuori scena e fuori copione, anche per la richiesta, rivolta a Letta, di giustificare alla comunità del PD l’improvvido distacco dal governo Conte II e la folgorante conversione all’agenda Draghi. Un tema che avrebbe potuto attrarre l’attenzione dei delegati di un congresso del Partito Democratico, ma che non poteva che lasciare del tutto indifferente il gotha economico e imprenditoriale del nostro paese riunito a Cernobbio.
Resta perciò, sulle rive del lago di Como, la nostalgia per il governo Draghi, congiuntamente a un timido auspicio che il governo che verrà sappia riconoscere l’urgenza del momento, seguendo le orme di chi lo ha preceduto. Con un’ultima notazione di immagine, che però porta con sé molte considerazioni rispetto allo stato di salute della politica nostrana: un tavolo con sei leader politici, forse un po’ troppi, comunque un eccesso. Se poi si pensa che tre dei leader presenti alla tavola rotonda rappresentavano lo stesso schieramento, risulta ancora più chiara la confusione che alberga fra le forze politiche a meno di tre settimane dal voto. Spetterà agli elettori fare chiarezza, anche se con questi presupposti non è certo cosa facile da fare.
In copertina: Lucrezia Ruggieri – La fabbrica delle idee – Tecnica mista