“Tutti giù per terra” era il geniale titolo che annunciava dalle pagine del quotidiano Avvenire lo sbarco a Catania dei migranti a bordo delle due navi ormeggiate nel porto, la Geo Barents e la Humanity, mentre veniva comunicato che la Ocean Viking sarebbe stata accolta nel porto francese di Marsiglia.
Al di là dei titoli dei giornali, piuttosto equamente divisi fra chi esulta per una vittoria del governo e chi sostiene l’esatto contrario, vengono da fare alcune considerazioni politiche. Assumiamo che l’obiettivo deciso dal governo italiano per limitare gli sbarchi sul suo territorio sia corretto d condivisibile, cioè evitiamo di entrare nel merito di quella polemica sterile quanto strumentale che sulla gestione dei flussi migratori oppone i sostenitori della linea dura a coloro che difendono una logica di accoglienza indiscriminata. Questo punto non ci interessa! Diamo perciò per assodato che il nostro comune obiettivo, come paese, del governo come dei cittadini, sia quello di contenere gli sbarchi, poiché siamo convinti che la collocazione geografica dell’Italia ne faccia un naturale punto di approdo per quanti scappano dai paesi del Nord Africa, primo fra tutti la Libia, in cerca di fortuna o per scampare agli orrori di una guerra. Contro di noi giocano peraltro gli accordi di Dublino sull’obbligo di assistenza da parte del primo paese europeo con il quale i naufraghi o rifugiati entrano in contatto, così come la scarsa credibilità di un’intesa sulla ripartizione volontaria degli immigrati fra gli Stati membri dell’Unione europea.
Dopo le tensioni di questi giorni, che ripropongono scene già viste all’epoca in cui Ministro dell’Interno era Matteo Salvini, una domanda sorge spontanea: ma siamo sicuri che il blocco degli accessi ai porti costituisca la strategia migliore per perseguire il nostro obiettivo? È evidente che si tratti di una strategia di minaccia: minacciamo di lasciare a mollo in mezzo al mare i migranti che chiedono di sbarcare se non vi è un’intesa preventiva sulla ripartizione volontaria di chi viene sbarcato in un porto italiano. Ma si tratta anche di una minaccia spuntata, perché il soggetto che sostiene i costi della minaccia (chi si trova abbandonato in mare) non corrisponde al soggetto sul quale la minaccia dovrebbe sortire un effetto (che, per semplicità, possiamo assumere sia principalmente la Commissione europea, che è anche l’organismo che in questo momento indirizza all’Italia la critica di non tutelare il diritto alla sopravvivenza dei migranti che fuggono dal Nord Africa).
In un’interazione negoziale, i costi della minaccia dovrebbero gravare sulla controparte, cioè su chi nell’ambito dell’interazione è tenuto a rispondere alla nostra azione di minaccia. Qui, invece, i costi della minaccia gravano tutti su un soggetto che non ha alcun titolo a decidere e, di conseguenza, figura come un’inerte merce di scambio politico pagando ciò che accade sulla propria pelle. Senza voler emettere giudizi avventati o pregiudiziali, è evidente come questa minaccia – priva di una qualsiasi conseguenza concreta e oggettiva sulla controparte del governo italiano – equivalga esclusivamente a un ricatto morale. È infatti agendo sulla leva del ricatto morale che chi blocca l’accesso ai porti intende ribaltare sulla controparte europea la responsabilità di ciò che accade. Come dire: se queste persone restano a mollo in mezzo al mare è solo perché la Commissione europea (peraltro, sotto scacco del Consiglio europeo per le divisioni fra gli Stati membri UE sulla questione migratoria) non decide di vincolarsi a una ripartizione obbligata dei migranti fra i diversi paesi dell’Unione.
Al di là della deprecabilità dal punto di vista etico e morale di questi argomenti, proviamo ad esaminare da un punto di vista puramente razionale il confronto fra governo italiano e Commissione europea rispetto alla strategia del blocco dei porti. La Commissione europea può condannare il comportamento del governo italiano, invocando ragioni umanitarie e giuridiche (l’obbligo al soccorso previsto dal diritto del mare o della navigazione). Però, al di là dei buoni sentimenti, non vi è propria nessuna ragione che possa indurre la Commissione europea a modificare il suo orientamento, magari rimettendo mano agli accordi di Dublino per sancire un patto di ripartizione vincolante e obbligatorio. Anzi, per gli altri Stati europei la condanna morale, congiuntamente all’indifferenza sul piano delle decisioni politico-istituzionali, può essere considerata una strategia (paretianamente) ottimale. Con l’esito conseguente di ribadire la condanna morale dell’Italia per come si sta comportando, ovvero di restituire al mittente il ricatto morale che avrebbe dovuto indurla ad assecondare le richieste del nostro governo e quindi rivedere i contenuti degli accordi di Dublino.
Se, a questo punto, valutiamo la strategia del blocco dei porti dal punto di vista del governo italiano, ci rendiamo immediatamente conto che rischia davvero di essere del tutto inefficace. Il governo, infatti, dovrebbe chiedersi se la minaccia della chiusura dei porti sia o meno rivolta ai suoi interlocutori europei , che costi comporti per il Talk interlocutori e se tali costi – nel caso in cui esistano – siano sufficienti a cambiare il loro orientamento strategico. Basterebbe porsi queste poche e semplici domande per comprendere che la strategia del blocco dei porti non porta da nessuna parte. Le uniche vere conseguenze che può produrre, infatti, riguardano il giudizio negativo sull’operato del nostro governo, che se da un lato non aiuta a risolvere il problema della regolazione dei flussi migratori, dall’altro non contribuisce nemmeno a creare in Europa un terreno politico favorevole alla sua risoluzione.
In buona sostanza, la strategia del blocco degli accessi ai porti rischia di configurarsi come uno straordinario cerino che resta in mano al governo italiano. Quando viceversa, sarebbe forse possibile perseguire strategie alternative, più efficaci e meno costose – in primo luogo, sul piano dell’immagine – per il nostro esecutivo. Si potrebbe infatti sfruttare i buoni rapporti con gli altri paesi con un governo a guida sovranista, a cominciare da quelli che fanno capo al cosiddetto “Patto di Visegrad”, per convincerli ad assecondare una revisione degli accordi di Dublino. In questo momento, a causa dell’emergenza profughi prodotta dalla guerra in Ucraina, la Polonia sta ricoprendo un ruolo fondamentale, mostrando una capacità di accoglienza che finora non aveva mai esercitato. Proprio per questo, la Polonia potrebbe essere un primo importante alleato per definire un’intesa sulla ripartizione dei migranti in Europa. Poi si tratterebbe di convincere l’Ungheria di Orban ad assumere un atteggiamento più strategico e collaborativo. Anche perché il veto attualmente posto da quel paese sulla revisione degli accordi di Dublino rischia di rappresentare una forte penalità per un paese come il nostro, particolarmente esposto ai flussi migratori nel bacino del Mediterraneo. Un’alleanza con i paesi della frontiera Est dell’Unione, oggi sottoposti a una pressione straordinaria per via dei flussi di rifugiati provenienti dall’Ucraina, potrebbe essere decisiva per prendere finalmente sul serio il problema dei flussi migratori. Si potrebbe, inoltre, utilizzare il Patto del Quirinale fra Francia e Italia per impostare una strategia congiunta con i cugini d’oltralpe, a loro volta sottoposti alla pressione dei flussi sulla frontiera Sud dell’Europa, originata dai paesi africani affacciati sul Mediterraneo.
Un po’ più di diplomazia, finalizzata alla costruzione di un’alleanza fra gli Stati membri UE per diverse ragioni maggiormente soggetti alla pressione migratoria, potrebbe creare le condizioni per affrontare l’emergenza immigrati in una più efficace logica di lungo periodo. E per evitare che il nostro paese finisca in un angolo, schiacciato fra il dovere di assistenza in situazione di emergenza che ci rimprovera l’Unione Europea e una frontiera naturale rispetto alla quale gli altri Stati membri dell’Unione possono opportunisticamente mostrarsi indifferenti. Se vogliamo risolvere il problema dei flussi migratori, che sta ormai assumendo una dimensione strutturale, dobbiamo dotarci di una strategia politico-diplomatica all’altezza della sfida. Altrimenti l’autocommiserazione rispetto all’assenza di ascolto da parte delle istituzioni europee rischia soltanto di tenerci sulla graticola, senza risolvere il problema.