Il 3 settembre del 1982, alle nove di sera, la mafia uccise nel centro di Palermo il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, insieme alla sua giovane moglie, Emanuela Setti Carraro. L’agente di Polizia che faceva loro da scorta, Domenico Russo, mori qualche giorno dopo, il 15 settembre, in seguito alle gravi ferite riportate durante l’agguato. Insieme all’assassinio di Aldo Moro, l’omicidio di Dalla Chiesa ha rappresentato il più grave delitto della nostra storia repubblicana.
Dalla Chiesa era giunto in Sicilia soltanto quattro mesi prima, nominato dall’allora Ministro degli Interni, Virginio Rognoni, allo scopo di dare un segnale forte e risoluto alla lotta contro la mafia, che era tornata a rialzare la testa con rinnovata ferocia. Non si trattava più della mafia di Luciano Liggio, ma di quella dei Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano, che si era ormai estesa oltre la Sicilia occidentale e aveva iniziato a differenziare i suoi affari al di fuori dell’edilizia, soprattutto in ambito finanziario.
Dalla Chiesa, da poco nominato vice Comandante dell’Arma dei Carabinieri, che già poteva vantare una conoscenza sul campo del fenomeno mafioso, in quanto in passato aveva avuto il comando della Legione di Palermo, e che veniva dall’aver combattuto con efficacia il terrorismo brigatista, poteva considerarsi la persona più adatta per combattere Cosa Nostra con maggiore determinazione.
Preso congedo dall’Arma, il Generale Dalla Chiesa è nominato Prefetto di Palermo dal Consiglio dei ministri il 6 aprile 1982, e si insedia nel capoluogo siciliano il 30 aprile, proprio il giorno in cui venne assassinato il segretario regionale del PCI Pio La Torre. Nel 1981 La Torre, parlamentare comunista, aveva chiesto ai vertici del suo partito di assumere nuovamente la carica di segretario regionale in Sicilia, per proseguire in quella che era la sua terra di origine l’impegno contro la speculazione edilizia e la mafia che aveva già caratterizzato la prima fase della sua carriera sindacale e politica nell’isola. Solo un anno prima di lasciare il Parlamento, nel 1980, La Torre era stato anche promotore di una proposta di legge che introduceva il reato di associazione di stampo mafioso. Una fattispecie indispensabile per perseguire con efficacia la rete di un’articolata organizzazione criminale come Cosa Nostra, poiché fino a quel momento i processi per mafia, prevedendo esclusivamente reati individuali, finivano con l’incagliarsi sistematicamente nell’intricata maglia dei rapporti fra mandanti, boss ed esecutori materiali dei delitti.
La presenza di Dalla Chiesa a Palermo segnò immediatamente un deciso cambio di passo. Mettendo in campo l’esperienza maturata nella lotta al terrorismo rosso, il Generale disponeva degli strumenti adeguati per delineare con chiarezza il fenomeno mafioso rispetto alle sue peculiari caratteristiche organizzative. Anche se la sua azione fu costretta a dispiegarsi nella più completa solitudine, non riuscendo mai a ottenere quel sostegno e quei poteri che aveva chiesto allo Stato prima ancora del suo insediamento a Palermo. Nei cento giorni del suo impegno in qualità di Prefetto, Dalla Chiesa riuscì ad avviare indagini importanti, che in seguito risulteranno decisive per l’istruttoria del maxi processo a Cosa Nostra ad opera di altri due magistrati che verranno a loro volta uccisi dalla mafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Egli riuscì anche a risvegliare una società civile palermitana fino a quel momento intorpidita dalla collusione mafiosa, anche se dovette subire la denigrazione e l’ostracismo di gran parte del mondo politico ed economico isolano.
I cento giorni di Dalla Chiesa a Palermo lasciarono un segno già profondo di quello che da principio fu possibile intendere. Durante l’omelia della cerimonia funebre, il cardinale di Palermo, Salvatore Pappalardo, disse “mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”.
Una celebre citazione di Tito Livio, che ben raffigurava lo stato di desolazione e rabbia in cui versava la Sicilia delle persone perbene in quei giorni di fine estate, in cui la mafia tornava drammaticamente a rivendicare il proprio violento primato sull’isola. Tuttavia proprio allora la presa di coscienza dei siciliani ebbe un primo decisivo sussulto: ribellarsi alla mafia era possibile, e credere nelle istituzioni – quando gli uomini che le rappresentano sono coerenti e credibili servitori dello Stato – poteva essere un’arma decisiva nella lotta alla criminalità organizzata.
Le esequie di Dalla Chiesa e della sua giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, misero in scena per la prima volta nella storia siciliana la voglia di riscatto e l’indignazione dei siciliani, infrangendo quel muro di indifferenza che fino ad allora aveva accompagnato i funerali delle vittime della mafia. Quella stessa indignazione e voglia di riscatto che trovò la stessa forza di esprimersi dieci anni dopo, in occasione dei funerali di Falcone e di Borsellino. Questo è forse il lascito più importante di Carlo Alberto Dalla Chiesa: aver contribuito a quel risveglio della Sicilia che nei decenni successivi ha permesso di ottenere i risultati che sappiamo nella lotta a Cosa Nostra. Perché la mafia si combatte anzitutto sul piano culturale e sociale, isolandola, e soltanto dopo su quello giudiziario, con i processi e le sentenze.
Generale Carlo Alberto dalla Chiesa
Fonte foto di copertina: La Discussione