Mai come in questo momento il tema dei disastri della guerra risulta di assoluto interesse. Anche se nella narrativa il topos della guerra è permanente da sempre, (non a caso il più antico racconto della nostra cultura occidentale è l’epos dell’Iliade), il romanzo di Valeria Lanza tocca il lager psicologico dell’oltraggio all’identità fisica, al volto dei militari a cui gli scoppi delle granate e le altre ingiurie delle armi belliche spappolano il viso, annientandolo.
Siamo al tempo della Prima Guerra Mondiale e molti giovani tornano dal fronte deturpati, tornano al paese in una provincia del Nord Italia, dove, come in tutte le periferie del mondo, il diverso fa paura e questi uomini inquietanti, con la sciarpa arrotolata sul volto e il berretto calato sugli occhi, non si sa più chi siano. Siamo ancora al tempo in cui la bruttezza è percepita come negatività e come assenza di fortuna, per cui questi reduci vengono rifiutati dalla comunità. Nel dramma dell’ostracismo sociale si innesta quello personale che fluisce nel suicidio del giovane depositario dei sentimenti della protagonista, Anne, sin dai tempi dell’infanzia. Il senso di colpa della ragazza, che ritiene di non aver saputo aiutare l’eroe perdente del romanzo, la induce a cercare nelle sue capacità di scultrice una soluzione da offrire a tutti i reduci sfigurati, in onore di un sentimento d’amore che resta intatto fino alla fine. Un rimedio per tutti, anche per il capitano responsabile della fucilazione di suo fratello.
E di questo gesto di generosità la protagonista porterà le conseguenze fino alla fine della sua vita. A questa trama primaria si affiancano trame parallele, anch’esse importanti e che ruotano anch’esse dentro il tunnel della guerra e del ritorno, del conflitto di odio-amore, della passione, della vendetta e del perdono, gestite dalla narratrice con abilità e competenza. La protagonista è ispirata dalla figura di una scultrice realmente esistita che, aiutata dal fratello, costruiva maschere, profili possibili, per nascondere l’orrore della devastazione fisica. Ma questo nulla toglie e nulla aggiunge alla compiutezza di una narrazione complessa e già matura nonostante la giovane età dell’autrice. La quale racconta secondo la temporalità classica, usando i verbi al passato, per nulla impedita dall’imperversante show dont tell della modaiola romanzeria attuale, perché accetta del narrare il processo del rivelare alla luce del presente la verità del passato, ed è questo un modo consapevole di stare dentro la Storia.
Lo stile del narrare è appassionato e denso di realismo che si enuncia senza indecisioni già al primo capitolo e si mantiene costante fino in fondo. Colpisce subito la descrizione cruenta della scena di guerra del primo capitolo che presenta uno dei personaggio principali. “… Un grumo informe di carne schizzò vicino ai suoi piedi. Poltiglia fumante, scarlatta nel fango. Simon fissò il punto dove sostava l’uomo un secondo prima. Fu un attimo infinitesimale. L’oggetto tagliente lo colpì in pieno viso, a una velocità impressionante, inatteso. L’urto lo fece cadere supino, nel letame e nella fanghiglia. Davanti a lui si apri una voragine. Zolle di terra vennero ribaltate dall’impatto… Una patina bollente gli velava l’occhio destro. Sentì il calore che usciva a rivolo dal suo corpo… Il moncone di una mano cadaverica fu l’ultima immagine che gli si impresse nella retina.” È uno stile in cui contestuali coesistono realismo e poesia che mantengono una permanente attenzione su emozioni, sentimenti, valori, calati in un paesaggio campestre e urbano sicuramente disforico, per niente consolatorio, in cui l’eco della guerra aleggia come un’ombra costante e irrimediabile.
La creatrice di volti di Valeria Lanza non è un libro da leggere sotto l’ombrellone, ma è un libro importante che propone un tema che oggi ci sfugge, perché pensiamo che la guerra è lontana, perché non ricordiamo i mutilati di guerra che, anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, nei nostri paesi si aggiravano per le strade chiedendo con voce querula la carità. E’ un libro da fare leggere i giovani, e non soltanto perché l’autrice è giovane, ma anche perché induce a riflettere sulla “banalità del male”.