L’idea di “fine della guerra” si è fatta largo all’interno del panorama culturale americano ed europeo già a partire dai Trattati di Versailles, nel 1919. Ad oggi, 2023, si è appena concluso un ventennio di operazioni in Medio Oriente e, dopo più di un secolo, le guerre sono tutt’altro che assenti, anche dal panorama politico occidentale. Viene da chiedersi perché sia così ma, soprattutto, viene da chiedersi se sia possibile che il fenomeno della guerra abbia, nella realtà internazionale, una sua fine.
“Possibile che, ad oggi, ci siano ancora delle guerre?” a questa domanda, tendenzialmente rispondo che i conflitti sono condannati a prolungarsi almeno finché non inventeranno grilletti che il nemico non può premere.
Le conseguenze logiche di questo aforisma sono superflue. Si tratta, essenzialmente, di accettare la guerra come strumento a disposizione della realtà internazionale perché, come diceva von Clausewitz, “si tratta della continuazione della politica con altri mezzi”.
Una volta che si accetta l’idea che le nazioni abbiano sfere di influenza, e che tendono a preservarle, diventa inevitabile l’accettazione delle attività belliche come tese alla preservazione di queste ultime.
Dire questo pare, da un lato, certamente demoralizzante: sembra infatti impossibile creare la ricetta magica che ponga fine a tutte le guerre. Si può ammettere che sia così, ma ciò non vuol dire accettare passivamente ogni guerra marchiandola come inevitabile. Da tempo, infatti, la geopolitica ha accettato il termine “escalation” che vede la guerra come apice di un processo, le cui tappe sono le decisioni che vengono prese dai governi, ponderate in base alle decisioni di attori strategici.
Si può, pertanto, dire che le guerre nascono e si sviluppano seguendo delle logiche di “codecisione”. Conseguenza di questo corollario è che, conoscendo gli attori determinanti, e le logiche in base alle quali prendono le loro decisioni, è possibile prevedere il modo in cui si muoveranno. Quest’attività, storicamente affidata all’intelligence, ne presuppone un’altra, successiva, di “analisi”, atta a interpretare le conseguenze delle loro mosse e a suggerire al decisore politico come orientare le proprie in funzione a un determinato obiettivo che si vuole raggiungere.
La comprensione di questi fattori è, di per sé, un viatico agli scontri: intendere cosa vuole il nemico, ma soprattutto che cosa è disposto a pagare per averlo, può permettere, di volta in volta, di ovviare al problema prima che esso generi delle fratture inevitabili.
Quest’idea ci fa entrare, dunque, non tanto in una logica di “fine” della guerra, ma di “prevenzione” della stessa; per farlo è, però, necessario, comprendere il modo in cui nascono e si sviluppano i conflitti.
La questione fondamentale resta: comprendere uno schema, relativamente invariato, che, per essere messo in pratica necessita di determinate precondizioni.
Lo studio, in definitiva, della guerra, è l’inizio del suo superamento.
Tomahawk, arma bianca da guerra nella tradizione dei nativi del Nordamerica, fonte: Wikipedia