Il governo Meloni si è insediato giusto una settimana fa. A bocce ferme, lontani dalla concitazione del dibattito pubblico che si è svolto nelle prime ore successive al suo varo, proviamo a esaminarne le caratteristiche in maniera fredda e distaccata.
Anzitutto dobbiamo dire che non si tratta di un esecutivo che si distingue per il calibro del nome dei suoi ministri. Se sarà o meno all’altezza delle sfide che aspettano il nostro paese sarà la realtà dei fatti a dirlo. Di certo, non siamo innanzi a nomi di grande rilievo. Dobbiamo peraltro considerare che si tratta di un governo totus politicus che, nascendo dagli inevitabili negoziati fra il nuovo Presidente del consiglio e i partiti politici della sua coalizione, non può corrispondere in tutto e per tutto alle aspettative degli osservatori e alle necessità oggettive del momento.
Stabilito perciò che non si tratta di un “governo dei migliori”, guardiamo in primo luogo ai suoi numeri: 24 membri (escluso il Premier), 9 ministeri senza portafoglio e 15 con portafoglio. Non pochi, anche se manca un ministro all’Innovazione tecnologica e transizione digitale (poltrona occupata nello scorso governo da Vittorio Colao), che per i ritardi del nostro paese su questo fronte e la rilevanza strategica che esso assume nel PNRR sarebbe stato utile avere. I dicasteri sono stati divisi fra i partiti della coalizione in modo proporzionale ai rispettivi consensi: azionista di maggioranza relativa è la componente di Fratelli d’Italia, con il 47% dei ministeri con portafoglio e il 45% di quelli senza portafoglio, mentre Forza Italia e Lega detengono un numero di posizioni uguali, corrispondente al 20% dei ministeri con portafoglio e al 22% di quelli senza. Chiudono la rosa i ministri per così dire “non allineati” (tecnici o meno), con il 13% dei dicasteri con portafoglio e l’11% senza. Ciò significa che Fratelli d’Italia non ha voluto forzare oltremodo la mano nella composizione del governo, ovvero non ha inteso mantenere sotto il proprio controllo la maggioranza stretta (cioè a dire, quella assoluta) dei ministri. Del resto, il controllo della maggioranza della compagine governativa non è di per sé garanzia di una minore conflittualità. E anche il governo Meloni dovrà inevitabilmente fare i conti con il problema della coesione, com’è facile desumere non solo dalle differenze esistenti nelle priorità indicate dalle forze politiche della sua coalizione, ma anche nelle prime uscite dei suoi rappresentanti più significativi. Sarà, in particolare, la Lega a dare del filo da torcere alla Meloni, vuoi per l’incontenibile esuberanza del vicepremier Salvini e vuoi perché avverte la necessità di recuperare consensi soprattutto in quel Nord dove i voti gli sono stati efficacemente sottratti proprio da Fratelli d’Italia.
Un dato positivo di questo governo può essere quello dell’esperienza politica, presentando in diversi dicasteri personaggi già noti alle cronache per un’attività parlamentare di lungo corso. Piuttosto si può dire che non sia un governo di facce nuove: molti dei nuovi ministri, infatti, erano già sulla scena politica nel corso degli anni Novanta, cioè vent’anni fa. Come dire: l’inevitabile costo dell’esperienza. Al contrario, una preoccupante assenza di esperienza sul fronte del proprio mandato ministeriale è quella di Paolo Zangrillo alla Pubblica amministrazione. Un dicastero estremamente importante per l’implementazione efficace delle linee di investimento previste dal PNRR, rispetto al quale il suo titolare non può vantare nessuna esperienza significativa. Zangrillo, già parlamentare nell’ultima legislatura nelle fila di Forza Italia, ex dirigente di azienda, può vantare l’importante e prestigiosa presidenza di ACEA (l’associazione di rappresentanza dell’industria automobilistica europea) ma di amministrazione pubblica non ne sa nulla. E senza pretendere le competenze e l’efficacia dell’ultimo Ministro della Funzione pubblica (quel Brunetta che forse è stato anche uno dei migliori ministri del governo Draghi), forse si sarebbe potuto osare un po’ di più. Soprattutto in considerazione del fatto che larga parte del futuro del nostro paese, anche a prescindere dallo stesso PNRR, passa attraverso l’innovazione degli apparati della sua amministrazione pubblica.
Per il resto, si potrebbe discutere dei ministri Sangiuliano e Bernini, rispettivamente alla Cultura e all’Università e Ricerca, ma prima di vederli alla prova sarebbe davvero molto ingeneroso. Così come si potrebbe mettere sotto i riflettori il ministro Crosetto, che da ministro della Difesa e imprenditore attivo nel settore dell’aerospazio (a partire dalle sue consulenze per Leonardo), si trova in palese conflitto di interessi. Sebbene stiamo parlando di un settore i cui protagonisti, almeno sul fronte delle imprese italiane, si contraddistingue per avere rapporti così stabili e duraturi con gli ambienti ministeriali da non essere oggetto di interessi personali del ministro. Sotto il profilo dei nomi, quindi, nonostante ce ne fossero in giro di più elevata caratura, non sembrerebbe esservi molto altro da aggiungere.
Un tema ancora diverso, ma assai rilevante per la critica situazione che stiamo vivendo nei rapporti con l’Unione Europea e con gli Stati Uniti, nella contingenza del conflitto russo-ucraino e della crisi energetica che ne è seguita, riguarda l’insieme delle garanzie offerte dagli inquilini dei dicasteri più esposti sotto il profilo delle relazioni internazionali. E qui possiamo dire che la Meloni abbia compiuto delle scelte assai equilibrate, rafforzando i segnali di tranquillizzazione che aveva già inviato ai partner internazionali ancor prima delle elezioni del 25 settembre. Tre sono i ministeri importanti sotto questo profilo: Esteri, Economia e Finanza, e Affari europei. E su tutte e tre queste poltrone sono approdate figure dotate di una sufficiente considerazione a livello internazionale. Non stiamo certo parlando dell’autorevolezza che aveva Draghi, che in quanto mister “Whatever it takes”, salvatore della BCE e dell’euro godeva dell’ascolto delle principali cancellerie europee, oltre che della Casa Bianca e dei più importanti organismi internazionali, a cominciare dal FMI. Ma Tajani, per i suoi trascorsi a Bruxelles in qualità di Presidente del Parlamento europeo; Giorgetti, per la sua vicinanza a Draghi quando era al Ministero dello Sviluppo Economico e per la considerazione di cui gode a Washington; nonché Fitto, per la sua conoscenza degli ambienti di Bruxelles (è stato vice Presidente del gruppo dei conservatori nel Parlamento europeo, oltre che assiduo frequentatore delle istituzioni comunitarie da Presidente della Regione Puglia), sono tre personalità che garantiscono rispetto al permanere di rapporti positivi con i nostri più significativi interlocutori nel contesto internazionale.
Due criticità, per concludere, riguardano invece la ripartizione delle deleghe fra dicasteri a vario titolo concorrenti sul medesimo ambito di competenze. Stiamo parlando, da un lato, dei ministeri delle Riforme istituzionali e degli Affari regionali, e dall’altro, dei ministeri delle Infrastrutture e del Mare. Qui a confrontarsi, occupando poltrone diverse ma chiaramente in stretto collegamento fra loro, saranno Alberti Casellati con Calderoli e Salvini con Musumeci. Per quel che concerne le riforme istituzionali, è chiaro che qualsiasi ipotesi di modifica della Costituzione repubblicana riguardante la forma di governo (si parla già da prima delle elezioni di presidenzialismo) non possa non interessare anche l’insieme delle prerogative di Regioni e autonomie locali (terreno sul quale è peraltro già in itinere la proposta dell’autonomia differenziata). Proprio per questo, sarebbe stato meglio attribuire una delega unica, invece che spacchettare istituzioni centrali e locali/regionali, incrementando di fatto i rischi di un conflitto politico su questi delicatissimi temi, che sono anche quelli sui quali da quasi quarant’anni (Buzzi, De Mita, D’Alema, Renzi … giusto per ricordare qualche nome) non si riesce a combinare nulla. Per quel che concerne le infrastrutture e il mare, la situazione sembra – almeno sulla carta – assai meno complicata. In primo luogo, perché il ministero di Musumeci è senza portafoglio e quindi riuscirà a fare ben poco sia rispetto alle politiche del mare sia rispetto al Mezzogiorno. In secondo luogo, perché Salvini, da ministro delle Infrastrutture, ha già avanzato richiesta per l’attribuzione delle deleghe alle autorità portuali, al comando delle capitanerie di porto e alla navigazione, a cominciare dal trasporto marittimo. Perciò è assai probabile che il ministero delle Politiche del Mare e Sud si risolva in una scatola vuota, con buona pace del Mezzogiorno che ancora una volta, e nonostante i fondi del PNRR, rischia di essere messo in disparte. Fin qui, per quel che concerne le attribuzioni dei singoli ministri. Cosa diversa è poi la politica. Nel senso che nulla vieta, e tanto meno qualche Dpcm (strumento ormai noto anche al grande pubblico) che conferisce incarichi e deleghe a ministri e sottosegretari, che fra ministeri diversi di un esecutivo, su una certa tematica, si determini un conflitto politico. Sono i cosiddetti imprevisti della politica, che poi – in verità – sono ciò che di più prevedibile vi sia, rispetto ai quali si possono consumare lacerazioni tali da portare anche alla conclusione di un’esperienza di governo. Ma qui viene da pensar male, e secondo un vecchio adagio andreottiano, anche se si fa peccato spesso vi è la possibilità di azzeccarci. Non sarà che la Meloni abbia intenzionalmente costruito questi dicasteri in opposizione reciproca, al fine di limitare il potenziale di ricatto di cui potrebbero disporre i loro occupanti? Per dirla altrimenti: Alberti Casellati alle Riforme istituzionali potrebbe essere utile a bilanciare le intemperanze di Calderoli agli Affari e autonomie regionali, così come Musumeci alle Politiche del mare potrebbe risultare congeniale a bilanciare le intemerate di Salvini alle infrastrutture. In parte, lo capiremo meglio quando verranno attribuite le deleghe, soprattutto per quel che concerne l’area funzionale della navigazione e del trasporto marittimo fra Musumeci e Salvini. Ma già ora possiamo pensare che non sempre la costruzione di un governo corrisponda alle scelte migliori per massimizzare i risultati. Talvolta può risultare assai più utile minimizzare i danni. E con esecutivi poco coesi, come quelli ai quali ci siamo purtroppo abituati, questa potrebbe già essere una buona regola di funzionamento.