Un’antica guida per l’anima. Un testo che attraversa secoli e culture. Il Bardothödol, conosciuto come Libro tibetano dei morti, non parla di religione. Parla di coscienza, transizione, libertà.
Cos’è il bardo: lo spazio tra vita e morte secondo la tradizione tibetana
Tra la vita e la morte non c’è silenzio. C’è un passaggio. Un confine invisibile, instabile, senza tempo. I tibetani lo chiamano bardo. Uno stato intermedio, tra una vita e l’altra, tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere.
Il Bardothödol – “liberazione attraverso l’ascolto nel bardo” – non è un libro da leggere. È un testo da ascoltare. Viene recitato accanto al morente o al corpo appena spento, per accompagnare la coscienza nel viaggio più profondo e più strano di tutti: quello che segue la morte.
Il ruolo della coscienza dopo la morte: guida spirituale del Libro tibetano dei morti
Secondo il testo, la coscienza non muore con il corpo. Resta. Ma confusa. Si trova davanti presenze, luci, paure, illusioni. Ma tutto ciò che appare è la mente stessa che si manifesta.
Il Bardothödol serve a riconoscere questa verità. A vedere attraverso l’illusione. Solo così si può evitare la reincarnazione e raggiungere la liberazione.
Non è dogma. È istruzione. Una voce guida, nel buio. Un’ancora per chi se ne va.
Esperienze di pre-morte e simboli universali: il ponte tra Oriente e Occidente
Negli anni ’70, lo psichiatra Raymond Moody raccolse centinaia di racconti di esperienze di pre-morte (NDE). Tunnel, luce bianca, senso di pace, visioni di sé stessi. Esperienze vissute da persone di ogni cultura. E tutte – incredibilmente – già descritte nel Libro tibetano dei morti, secoli prima.
Susan Blackmore, psicologa della coscienza, raccontò visioni di simboli tibetani durante una meditazione profonda, senza mai averli studiati. Jung avrebbe parlato di inconscio collettivo. Di immagini archetipiche che emergono nei momenti di soglia. E questi simboli sembrano attraversare culture, lingue, religioni.
Un caso documentato: il corpo intatto per 49 giorni e il mistero del bardo
1933, California. Una donna tibetana muore improvvisamente. Il marito, praticante buddhista, inizia subito la lettura del Bardothödol. Per 49 giorni il corpo resta intatto, morbido, privo di decomposizione. Poi, il cambiamento: il corpo si irrigidisce. Di colpo.
Sono esattamente i 49 giorni indicati dal testo per il viaggio dell’anima nel bardo. Nessuna spiegazione scientifica è mai stata data. Testimoni e medici confermano: qualcosa è successo. Qualcosa che non rientra nei parametri del razionale.
Un episodio che mette in discussione il nostro modo di intendere il corpo. Il tempo. La coscienza.
Il Libro tibetano dei morti nella cultura pop: Jung, Bowie e la psicologia del morire
Carl Gustav Jung lo definì una “mappa precisa dei processi psichici della morte”. Per lui, il Bardothödol era una guida all’inconscio, non solo un testo religioso.
David Bowie lo cita nell’album Blackstar, Gaspar Noé gli dedica un film (Enter the Void), i Beatles e i Pink Floyd lo evocano nei testi.
Perché? Perché non parla solo di morte. Parla di identità. Parla del passaggio. Della libertà. Della possibilità di riconoscere sé stessi, anche nell’ultimo respiro.
Una guida per l’anima, non un dogma: la funzione del Bardothödol
Il Libro tibetano dei morti non chiede fede. Non impone dottrine. Dice solo: anche nell’ultima ora, la coscienza è viva. E ha bisogno di una guida. Di una voce. Di una presenza.
Chi ha accompagnato qualcuno nel morire lo sa: queste cose contano. Più di quanto possiamo dire.
Morire non è sparire: il significato profondo del Libro tibetano dei morti
Forse, alla fine, il Bardothödol non parla della morte. Parla della mente. Della possibilità di scegliere. Di vedere attraverso le illusioni. Di liberarsi.
Morire non è scomparire. È attraversare.
E ciò che ci portiamo dietro, in quel passaggio, non è solo ciò che siamo stati. Ma forse, tutto ciò che possiamo ancora essere.
Che grande opportunità!
Giulio Valerio Santini