Non è opportuno ignorare che l’attacco di Putin sia la drammatica risposta all’accerchiamento di Usa e Nato, bollando l’aggressione come il delirio solitario e irredentista di un autarca brutale. Seguitando a mantenere questo atteggiamento cieco e superficiale, il problema è ormai gravemente dilagato, e rischia di ripetersi altrove.
Con un occhio ai mass-media, è lecito sospettare che due anni di pandemia abbiano appiattito le capacità di ragionamento su una visione delle cose del tutto manichea: tampone positivo o negativo, vaccino sì o vaccino no, green pass sì o green pass no. Le vie di mezzo sono, in questo caso, escluse, ma il fatto che certi àmbiti del ragionamento possano essere così semplificati non significa affatto che un simile schema “binario” sia applicabile a ogni altra situazione. Nella maggior parte dei casi, anzi, non è così.
Che in un paese sedicente democratico come l’Italia occorra di questi tempi specificare che andare alla ricerca della cause non significa affatto voler trovare giustificazioni a un conflitto armato, fa venire i brividi. “Chi non è con noi è contro di noi” non è soltanto un atteggiamento puerile da tifoso, che stronca imprudentemente ogni tentativo di seria analisi geopolitica, utile alla risoluzione della crisi, ma è anche l’ombra di un passato doloroso.
Ben si comprende che sia più confortante, ed emotivamente meno oneroso, affibbiare tutte le ragioni a una parte e tutti i torti all’altra, specie se il torto maggiore, il più evidente e tragico, è inequivocabilmente di una sola delle parti.
Ai fini della risoluzione della crisi, e per minimizzare il rischio che questa situazione torni a ripetersi – ad esempio in Georgia – è più proficuo distinguere tra colpe e responsabilità: non è mai utile pensare di non avere, anche in piccola parte, almeno una delle due. Di più: anche quando è falso – ma non è questo il caso – è comunque utile pensare che sia vero. La colpa dell’invasione è – ovviamente – della sola Russia, ma la responsabilità è da ripartire tra le nazioni del mondo occidentale.
Se gli Usa si arrogano il diritto di circondare la Russia, facendo leva sui nazionalismi russofobi comprensibilmente maturati durante le occupazioni sovietiche, e le nazioni europee pensano che, con il vicino “particolare” che si ritrovano, non accada nulla, l’Europa o è complice, o pecca pericolosamente di ingenuità.
Da illuso pacifista quale sono, propendo più per la seconda ipotesi. Dopo tutto, l’EU aveva ben altre priorità: mentre otto anni di guerra civile imperversavano nell’Ucraina orientale, mietendo 13mila vittime, l’Europa doveva decidere il diametro dei tubi delle stufe a pellet. Ma è inutile – e sin troppo facile – recriminare. Guardiamo avanti. E per guardare avanti, come spesso accade, occorre prima voltarsi indietro.
Dopo che i nazionalismi e gli ultranazionalismi hanno causato la tragedia della seconda guerra mondiale, è maturato uno spirito europeista, diretto a superare quelle pericolose pulsioni e a disinnescare le loro componenti più scismogene e distruttive.
Gli stati fondatori dell’Ue hanno così avviato il progetto con spirito unitario, egualitario, solidale, pacifista e con una diffusa ed estesa comunanza ideologica di carattere moderato e matrice liberale, in risposta all’ultimo tragico evento comunemente vissuto.
Per gli stati ex sovietici, come la Polonia, l’Ungheria, i Paesi baltici, l’ultimo tragico evento vissuto è l’occupazione sovietica, alla quale hanno reagito in modo opposto: coltivando sentimenti nazionalistici e russofobi. Con lo scopo di sopravvivere come nazione e come popolo. Per noi fondatori, il nostro nemico siamo noi stessi. Per gli ex paesi allineati, il nemico è la Russia. Due storie diverse, due idee diverse, due approcci diversi alla politica estera. Io ritengo che il modo più sano di vedere le cose, malgrado i recenti eventi, resti ancora quello degli stati fondatori e, in generale, degli aderenti occidentali al progetto comunitario.