Il recente Convegno del mese di novembre, organizzato dall’Associazione Progetto Centola e dal Gruppo Lambro/Mingardo/Cultura, dal titolo: “Digressioni in tema di Identità del Cilento”, ha permesso di affrontare una serie di questioni in tema di identità, attuali anche per gli sviluppi di un concetto che è sempre più discusso, sempre più divisivo. Con il nuovo corso politico, ritornano le dicotomie “chiusure” e “aperture”, “identico” e “diverso”, “conservazione” e “evoluzione”.
Se ci si affeziona all’uno o all’altro termine oppositivo, il discorso appare fuorviante: identità, come identico, uguale, è nella logica delle cose; in filosofia è il principio di identità, in cui “A è uguale ad A”; ma “A” non esiste se non in confronto con ciò che è “altro da A”, per trovare le differenze. Del resto, lo stesso processo di formazione dell’individuo, qui è la psicologia che viene in soccorso, consente di porre questioni legate a identificazione (in rapporto alle figure con le stesse caratteristiche), individuazione (sviluppo del processo di differenziazione), imitazione (riproduzione dei modelli di comportamento), interiorizzazione (acquisizione di atteggiamenti, valori, comportamenti, norme). Ora tutto ciò serve per formare l’identità, ma non è possibile senza il confronto con l’altro da sé; e poi, i principi enunciati comportano comunque relazione, scambio, confronto.
Dunque il problema sembrerebbe risolto: l’identità è evolutiva! Non è proprio così, soprattutto se si allarga alla questione: quale identità?
L’identità di cui si è discusso nel Convegno è la cilentanità, un concetto ripreso negli anni novanta per intenderlo come un valore che si fonda sull’appartenenza ad un territorio “fisica, morale, culturale, psicologica”. Per ritrovare quella identità si è realizzato un processo che ha fatto interagire elementi differenti che vedono coinvolti la storia, la vita socio-economica, i comportamenti e la psicologia degli stessi, ed anche le istituzioni, il diritto che va ad inserirsi ed influenzare con i suoi disposti la società. Si può dire che la “cilentanità è un valore collettivo” che a partire dall’isolamento geografico del Cilento, e dunque dall’incapacità di subire profondi condizionamenti esterni, si è definito, attraverso il confronto della comunità con se stessa e con l’ambiente e il territorio, “grazie ad un sistema comune di regole e di pratiche di vita”. Nel sociale, nella comunità, emerge il senso di un’identità forte e coesa. La questione successiva è ancora più intricata. Dove si trovano le forme più autentiche della “cilentanità”? La risposta più pertinente è che la “cultura materiale” possa racchiudere il senso del valore identitario. Ma la “cultura materiale” è anche rapporto con l’immaterialità, con superstizione e fatalismo. Tutto il percorso identitario non può che fondarsi su: “spirito comunitario, arti e mestieri, feste e riti, lavoro nei campi, dialetto, cucina”. Se si pensa ai “cunti”, i racconti di una certa tradizione popolare cilentana, si scopre il senso reale delle cose che è in confronto con l’immaginazione, l’irreale, il fantastico. Questa asserzione trova nell’immaginario collettivo l’idea di una comunità che vive in sé e utilizza questi elementi per rinsaldare i valori, offrire messaggi a fini educativi: trasmettere il senso del lecito e del proibito nella società.
Nelle ricerche realizzate nel territorio, ho trovato una perfetta coincidenza tra la cilentanità e il concetto tracciato da Ferdinand Tönnies, la cultura tipica delle comunità contadine, che indicò come comunità, differenziandole dalle società. Se le società erano fondate sull’interesse, l’avidità, la brama di profitto e l’ambizione, le comunità erano fedeli a loro stesse nella misura in cui: erano forti i legami di tutti gli elementi che la caratterizzavano; erano entità piccole e riconosciute dai loro membri; erano autosufficienti, capaci cioè di provvedere alle attività e necessità dei membri; erano legate ai luoghi. Il “senso dell’identità cilentana” era cioè riconducibile a: atteggiamenti e abitudini (di vita); adattamento (nel rapporto con l’ambiente); appartenenza e attaccamento (ai luoghi e alle persone); subalternità (al potere); accoglienza e disponibilità (nei confronti dell’ospite). Queste evidenze erano legate agli studi su un territorio che presentava, fino agli ultimi decenni del novecento, tratti e valori ancora tradizionali, specie nei paesi dell’interno. Il contesto era quello popolare, giacché in questa terra non erano presenti elementi identificativi e rilevanti nelle classi medie e medio-alte, in quelle nobili ed ecclesiastiche. Dalle osservazioni sul campo, quel mondo popolare consentiva di affermare il termine cilentanità, almeno nelle generazioni meno giovani, quelle poco segnate dall’idea di modernità, e nei luoghi più impervi, dove la “contaminazione” non aveva del tutto “inquinato” il rapporto cultura/tradizioni. In sostanza, dove il processo di modernizzazione non è stato particolarmente rapido, sono emersi sentimenti di identificazione collettiva caratterizzati da modi di vita immediati dove i contatti risultavano essere personali e semplici, dove le dimensioni degli aspetti di vita in comune erano ridotte.
Non tutto è però così lineare. Dal Convegno, sono emerse alcune considerazioni che conducono alla riflessione. Si è parlato di appartenenza ad un territorio, ma quale territorio?
Molti studiosi hanno individuato nel tempo il Cilento: inizialmente la vetta del Monte Stella; in seguito l’area che va dal Solofrone all’Alento; ancora successivamente dalla zona che va da Paestum a Sapri; infine, con l’istituzione del Parco Nazionale, c’è l’aggiunta del territorio degli Alburni e del Vallo di Diano. È evidente che non può certo considerarsi un territorio omogeneo, data la vastità e soprattutto le specificità. L’individuazione più efficace potrebbe aggregare aree interne e costiere, oppure ambiti fluviali e pianeggianti, oppure riscontri legati alle vie di comunicazione. Sulla disomogeneità territoriale, credo di aver circoscritto la questione in quanto la ricerca ha riguardato essenzialmente un arco temporale e una cultura comunitaria ben definita. La vita cilentana era simile; difformi semmai le forme di campanilismo, le convenienze, le dispute che si concretizzavano in occasioni particolari. Pensiamo alle Congreghe: c’erano forti litigi per una mancata precedenza, ma le Congreghe come forme identitarie cilentane restano e svolgono analoghi rituali in tutti i borghi cilentani. In tal senso, queste particolari forme ed espressioni religiose potrebbero costituire un ambito specifico per parlare della costruzione di un’identità evolutiva che tenga in particolar conto il rapporto passato/presente/futuro.
Produco un altro esempio. Alla fine degli anni novanta, con il collega Antonio Di Rienzo, fui coinvolto in uno studio, avente quale finalità la tutela e la valorizzazione del patrimonio socio-culturale, realizzato nell’ambito del Progetto “Beni Culturali CNR”, Università Napoli, Facoltà di Sociologia, e Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano. L’intento era di studiare il territorio nei suoi aspetti socio-culturali e nelle forme di aggregazione e di socializzazione che si sviluppavano intorno alle risorse storiche, artistiche ed architettoniche. I risultati proposero di superare una tipologia dei paesi costruita secondo una classificazione che riguardava la dimensione modernità/arretratezza della zona: i paesi della costa, quelli più influenzati dai flussi turistici, e quelli dell’entroterra, che conservavano gli usi e le tradizioni del passato. I primi erano molto più portati a dimenticare la propria identità e ad essere condizionati da eventi esterni, da culture differenti; i paesi dell’interno, al contrario, mantenevano i valori di un tempo e su di essi costruivano i presupposti della loro esistenza, riproducendo e valorizzando comportamenti e tradizioni per non perderli. Si riscontrò che alcuni centri dell’interno, ma anche molti paesi della costa che intendevano migliorare le loro forme di accoglienza, attrezzati e con aperture verso il mercato esterno, riuscivano a determinare una nuova caratteristica: “il consumo della cultura”. Si avvicinano cioè a quei centri che negli ultimi decenni avevano conosciuto flussi turistici e consequenziali benefici economici, anche se con presupposti differenti. Riscontrammo che le risorse territoriali erano legate alle feste e ai momenti aggregativi (spontanei ed organizzati), riproducenti la cultura popolare, le espressioni religiose, la storia locale, ma anche le forme moderne di vivere la festa, il divertimento. Se tutto ciò era legato alla rivalutazione delle risorse artistico-architettoniche, le chiese e i castelli, le torri e gli scavi archeologici, allora l’intervento di riproposizione di una cultura da valorizzare aveva senso.
Ancora oggi, è proprio intorno ai centri storici, formati da piazze e palazzi baronali, fontane ma anche dimore più umili, quelle di una popolazione che sulla cultura materiale ha costruito la propria esistenza, si sviluppano i momenti ludici e festivi. Ed ecco, allora, che le risorse si fondono e trovano il modo di assemblare tutta la vita del passato: dalla storia all’arte, dalla cultura popolare alle espressioni religiose.
Ultima considerazione è sugli uomini. Identità cioè come persone in azione che partono dal territorio e ne utilizzano le risorse. Le ultime ricerche si stanno indirizzando proprio verso il ruolo dei soggetti territoriali, che non agiscono in termini individualistici ma trovano nella coesione e nell’operare in comune le ragioni per poter parlare di forme identitarie comunitarie, che passino attraverso le risorse culturali disponibili oppure la valorizzazione di prodotti tipici autoctoni. Le azioni sono ancora poco diffuse, ma una certa inversione di tendenza si sta verificando. I soggetti in azione possono relazionarsi ed entrare in contatto con ambiente e territorio, acquisire dagli altri, dai diversi, la complessità della vita, recuperare le risorse territoriali con il supporto di tecnologia e comunicazione. Sono i soggetti relazionali, creativi ed empatici, che potrebbero essere determinanti per recuperare i saperi tradizionali e guardare al futuro. Le conclusioni non possono che essere affidate ad un’identità come restanza, nel senso di arrestare l’abbandono attraverso iniziative indirizzate alla riscoperta e rivalutazione delle proprie radici, della storia, dell’arte e dell’architettura dei centri storici, senza trascurare il patrimonio immateriale, le voci, i volti e la protezione delle diversità culturali, di cui si parla tanto oggi in termini di valorizzazione e diffusione.