La campagna elettorale si sta concludendo in queste ore. Non è stata una campagna elettorale coinvolgente, e non solo perché si è svolta in maniera alquanto insolita sotto l’ombrellone! L’aspetto che più si impone all’attenzione dell’osservatore distaccato e imparziale è lo straordinario vuoto di visione e strategie per il medio-lungo periodo. Viviamo in una fase politica, interna e internazionale, assai turbolenta e difficile. Dopo la grande recessione degli anni passati, pandemia e guerra in Europa hanno avvolto di un denso alone di incertezza le nostre prospettive di vita. Incertezza che riguarda gli orizzonti di pace e prosperità degli stati nazionali, delle grandi aggregazioni internazionali (come la NATO), così come delle entità sovranazionali (come l’Unione Europea) e della trama dei trattati e degli accordi internazionali. Ma che ancor di più investe direttamente le aspettative individuali, sempre più fragili e indefinite in uno scenario in cui nulla è più sicuro, dalla salute al lavoro, dalla sicurezza personale alla tranquillità economica.
Di fronte a questo scenario, senza scomodare l’immagine di Churchill e De Gasperi dello statista che pensa alle generazioni future, avrebbe avuto molto senso impegnare tempo e risorse di questa campagna elettorale sul riflettere sull’orizzonte che si prospetta innanzi al nostro paese per i prossimi dieci/quindici anni e sulle scelte strategiche fondamentali che si dovrebbero mettere in campo per sopravvivere nella tempesta e trovare motivi di ripresa. Il frame che a livello europeo ha improntato la discussione pubblica più seria e impegnata nel corso degli ultimi due anni è stato contraddistinto dal Programma Next Generation EU e dal PNRR, Piano Nazione di Rinascita e Resilienza. Laddove “generazione futura”, “rinascita” e “resilienza” non erano certamente termini scelti a caso. Uno sforzo maggiore, da parte della politica italiana, ad inquadrare le proprie proposte politiche in questa cornice era forse pretendere troppo?
Invece abbiamo assistito a una campagna elettorale in cui leader e partiti politici, privi di idee e proposte concrete, hanno preferito confrontarsi sul terreno rassicurante della contrapposizione ideologica. Una scelta che, nel secondo decennio del XXI secolo, ci ha riportato – come la macchina del tempo di Ritorno al futuro – nel teatro novecentesco della battaglia elettorale del 1948, dove la cosa più importante (e, forse, allora, ben più realistica di quanto oggi non sia semplicemente patetica) era la condanna dell’avversario come rischio per la convivenza democratica.
Qualcuno dirà che, però, qualche proposta concreta, nella campagna elettorale di queste settimane, si è affacciata. Sebbene, ad onor del vero, si sia trattato di proposte spesso prive della necessaria concretezza, soprattutto dal punto di vista delle necessarie coperture economiche. Un esempio per tutti: il tema della flat tax, cavallo di battaglia del centro destra, che dalla proposta di non tassare gli incrementi di reddito di Fratelli d’Italia alla proposta di estendere la misura oltre ai professionisti ai quali già si applica ai lavoratori dipendenti della Lega, e al balletto delle percentuali dell’aliquota fra Lega e Forza Italia, nessuno si è mai preoccupato di mostrare delle simulazioni che ne dimostrassero la sostenibilità rispetto ai conti pubblici.
È inoltre assai difficile entrare nel merito delle proposte, nel momento in cui fra i partiti della stessa coalizione la si pensa diversamente. Ma cosa ha di fatto indotto questa straordinaria e anacronistica (visti anche i tempi che corrono) frammentazione politica? La legge elettorale, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, anche sotto il profilo costituzionale, ha certamente le sue colpe. La dinamica maggioritaria innestata dai collegi uninominali, che avrebbe dovuto rappresentare un incentivo per i partiti a costruire liste comuni e coalizioni, incide nella misura del 37% circa sull’attribuzione complessiva dei seggi, costituendo una sorta di premio di maggioranza implicito. Ciò però fa sì che la dinamica prevalente nella competizione elettorale resti quella del proporzionale, che induce i partiti a ricercare in solitaria la via del successo di lista. È vero che l’assenza di splitting vote (cioè la possibilità di votare nel collegio uninominale maggioritario un candidato collegato a liste diverse da quelle votate nel collegio plurinominale proporzionale) avrebbe comunque dovuto spingere i partiti a ricercare alleanze di lista in grado di rendere più competitivi i propri candidati nei collegi uninominali. Ma è altrettanto vero, e purtroppo dimostrato dai fatti, che il combinato disposto dell’incentivo a coalizzarsi nei collegi uninominali con l’incentivo a correre da soli nei collegi plurinominali ha generato un mostro. Sono soprattutto i partiti più piccoli, che in un parlamento molto frammentato possono anche risultare decisivi per la formazione di una maggioranza di governo, ad avvertire maggiormente l’incentivo a correre da soli, rinunciando alla vittoria nei collegi uninominali, ma potendosi in ogni caso assicurare una quota proporzionale del voto sufficiente a farli rientrare in gioco.
Fu Giovanni Sartori, di cui si ricordano non solo i puntuali e icastici interventi sul Corriere della Sera ma anche un libro come Ingegneria costituzionale comparata, fondamentale per comprendere le dinamiche di funzionamento fra sistemi elettorali e sistemi di partiti, a coniare il termine “can-gatto”, per indicare una legge elettorale che combina in maniera sconclusionata cose che non si possono tenere insieme. E il cosiddetto Rosatellum è senza dubbio un esempio paradigmatico di “can-gatto”.
Tuttavia la legge elettorale non è la sola causa dell’attuale frammentazione, poiché i partiti politici, al di là del sistema elettorale, ci hanno messo del proprio. Del resto, la fotografia di questi anni ci rappresenta un complesso di forze politiche deboli ed esposte alla crescente mobilità procurata dalla volatilità del voto, il cui obiettivo principale non è quello di vincere le elezioni ma di non perderle. Un’attitudine che ha contribuito a indebolire la politica italiana, che del resto alle ultime prove, dall’uscita dalla crisi del governo Conte II all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, non si è dimostrata all’altezza delle aspettative. E che del resto ha trovato riscontro anche nella palese incapacità di approvare una riforma elettorale in grado di ridurre la frammentazione politica e favorire la formazione di governi stabili e coesi. Condizioni politiche e istituzionali alle quali si deve aggiungere anche una congenita assenza di leadership, che fatichiamo a mettere a fuoco per peculiare natura della ribalta offerta dai social media, e per le influenze che quest’ultima esercita anche sulla carta stampata, favorendo il transito sulla scena politica come meteore di leadership che si sono dimostrate assai fragili alla prova dei fatti. Come una sorta di effetto ottico, la personalizzazione politica amplificata dai vecchi e soprattutto dai nuovi media ha perciò prodotto leadership effimere e transitorie. Ma in realtà la leadership, quella vera, resta una risorsa scarsa – se non del tutto assente – dalla scena politica italiana.
La prossima leader di turno, che se il voto di domenica dovesse confermare le previsioni dei sondaggi sarà Giorgia Meloni, si troverà ad affrontare una vera e propria “prova del fuoco”. Anche perché non possiamo trascurare che all’interno dello stesso centro-destra, da Salvini a Berlusconi, questa leadership appare già messa in discussione. E non basterà il consenso uscito dalle urne ad assicurarle la necessaria tenuta se l’autunno dovesse, fra inflazione, disoccupazione e aumento delle bollette, iniziare a deludere le aspettative dello stesso elettorato di centro-destra.