Il filosofo, ospite al Vittoriale in occasione del Festival della Bellezza, considera il rapporto tra la parola e l’immagine. Espressioni tratte da alcuni passaggi danteschi della Divina Commedia, che culminano nella consapevolezza di andare oltre la superficialità del nostro tempo.
Notte d’estate, poesia e stelle
Non può esserci combinazione di elementi più adeguata a costituire teatro al pellegrinaggio di Dante Alighieri verso l’infinito. Una volta chiusi gli occhi e abbandonati alla leggera brezza del Lago di Garda, Massimo Cacciari dirige il pubblico verso una sponda inesplorata, o meglio dimenticata dall’uomo moderno: l’autenticità della parola e dell’immagine. Veicoli in costante simbiosi tra loro e da sempre innati nell’individuo che, secondo il parere del filosofo, dovrebbe recuperare il coraggio e l’umiltà di “dislegarli da canoni certi e definiti”.
Il primato della parola
Le scritture bibliche, in particolar modo il Vangelo di Giovanni e la premessa al decalogo della Genesi, vedono un indiscusso primato del logos sull’immagine.
Se, infatti, la parola è il verbo che dona la vita e il solo strumento in grado di relazionarsi con il divino, la seconda forma espressiva declassa quale elemento incapace di compararsi con l’Assoluto. “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo”, tratta dal Deuteronomio 5:8-10, è un monito diretto al culto dell’immagine.
Il realismo dantesco
La rivoluzione artistica europea, che prende forza con l’inizio del secondo millennio, si fa rivendicatrice del valore dell’immagine. Uno dei massimi capolavori in questi termini è La Divina Commedia. Il realismo dantesco, che descrive la “Ripa di marmo candido … la natura li avrebbe scorno” nel canto decimo del Purgatorio, così come la scena dell’annunciazione nella medesima cantica, esprimono tutta la volontà di donare all’immagine la stessa potenza della parola.
La meraviglia dell’immagine
Quest’ultima segue, infatti, la meraviglia dell’immagine, destinata a prendere le redini espressive nel Paradiso. Le visioni creaturali di Beatrice e della Vergine, infatti, consentono allo sguardo umano di percepirne i tratti e di emozionarsi, ma denotano l’incapacità della parola di confrontarsi con la grandezza delle due figure.
La fragilità consapevole
La meta del pellegrinaggio di Dante è la visione divina, il “vivo raggio”. Quella condizione ascetica verso cui l’immagine stessa, insieme alla parola e alla memoria, è destinata a sentirsi impotente e smarrita, perché chiamata a relazionarsi con l’Assoluto.
La dimensione finita
Ma è proprio nel momento in cui il poeta “ficca lo sguardo verso la luce” e diviene consapevole della sua dimensione finita nei confronti dell’infinito, che la parola e l’immagine acquistano una forza superiore rispetto alle situazioni sinora incontrate. Le due forme espressive tornano ad approssimarsi e a convivere in simbiosi in un pellegrinaggio poetico e musicale svincolato dai sensi terreni, perché mosso dalla ricerca “dell’infinito, dell’indicibile e dell’inosservabile”.
Il nostro tempo e l’Intelligenza Artificiale
Secondo Massimo Cacciari, la parola e l’immagine hanno perso il valore morale più elevato.
L’umanità vive, infatti, nel costante desiderio di decodificare, definire e possedere qualsiasi cosa.
Pensiamo all’intelligenza artificiale, alla scoperta dello spazio o allo sfruttamento dell’ambiente.
Dimensioni che, se da un lato consentono di soddisfare la ricerca scientifica e determinati bisogno dell’uomo, dall’altro appiattiscono la nostra evoluzione culturale perché disincentivano il pensiero e l’azione. Per questo motivo, è importante ricordarci della nostra dimensione finita e fragile nei confronti dell’Universo. Non per sentirci vinti, ma al contrario per tendere a qualcosa che si cela dietro la superficialità del nostro tempo, riconoscendo i nostri limiti umani quale incentivo di crescita.
In copertina: Massimo Cacciari; Festival della Bellezza