Ogni anno, l’8 marzo torna con il suo simbolo più riconoscibile, la mimosa. Un fiore fragile, eppure resistente, che fiorisce in anticipo rispetto alla primavera. Un’immagine che ben rappresenta la storia delle donne: delicate ma forti, capaci di farsi strada anche nei contesti più ostili. Ma ridurre questa giornata a una celebrazione fatta di omaggi floreali e cene a tema significa tradirne il senso profondo.
La storia
L’8 marzo non è una festa nel senso convenzionale del termine. È la Giornata Internazionale della Donna, la ricorrenza in cui si ricordano le conquiste ottenute con fatica, ma soprattutto le battaglie ancora aperte. Se oggi le donne occupano ruoli che un tempo erano loro negati, è perché qualcuna ha lottato per ottenere quei diritti, spesso pagando un prezzo altissimo. Ma dietro ai progressi, resta una realtà fatta di disuguaglianze che ancora pesano sulle spalle femminili.
Le sproporzioni
Il divario salariale continua a essere una realtà concreta: a parità di mansioni, le donne guadagnano meno degli uomini e incontrano maggiori ostacoli nella crescita professionale. Il carico della cura familiare e della gestione domestica grava ancora sproporzionatamente su di loro, spesso a scapito delle ambizioni personali. E poi c’è la violenza di genere, una piaga che non si arresta. Maltrattamenti, discriminazioni, femminicidi sono il segnale di una cultura patriarcale che resiste nelle mentalità, nei comportamenti, nelle istituzioni.
La coscienza collettiva
La vera sfida dell’8 marzo è non farne una semplice ricorrenza, ma un momento di consapevolezza collettiva. Non basta una giornata all’anno per parlare di parità, non servono slogan vuoti se non sono seguiti da azioni concrete. La battaglia per l’uguaglianza si combatte ogni giorno, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle case, nei linguaggi e nelle leggi.
Che l’8 marzo sia allora un punto di ripartenza, una promessa di cambiamento che duri ben oltre un giorno sul calendario. Le mimose appassiscono in fretta, i diritti – quelli veri – devono invece radicarsi e restare. Perché la parità non è un favore da concedere, ma un principio da garantire.