Dal passato remoto della Sardegna emerge una forma di eutanasia caritatevole.
Viene di notte, vestita di nero, il viso velato. Cammina piano, con poco rumore. La porta è già aperta. Uno solo è rimasto, forse lo sa, chissà. Ormai conta poco. Un colpo secco, magari un secondo ed è tutto finito.
Come è arrivata, se ne va. Lentamente, con la calma dell’età avanzata. Scompare nel buio. Chi ha visto e non voleva vedere dimentica.
È questa la scena che ha come protagonista s’accabadora. Una donna, si dice anziana, che provvede a porre fine alle sofferenze dei malati terminali, a quelli che non resistono più al dolore, che invocano la propria morte a ogni istante.
I familiari non si danno pace. Che amore è lasciar soffrire il sangue del proprio sangue o il compagno di una vita. Non possiamo, non riusciamo. Il cuore si strazia. Chiamiamola dai, se sbagliamo Dio ci chiederà il conto ma forse ci perdonerà. Gli uomini certamente e subito!
Siamo in una Sardegna d’altri tempi dove si dice che sa femmina accabadora abbia operato per un tempo che la memoria ha difficoltà a ricordare. Il suo strumento un bastone appositamente intagliato nell’olivastro, detto “su mazzolu”, con il quale assestava un forte colpo alla fronte del malato, uccidendolo.
S’accabadora ha praticato lungamente la sua missione in particolare nella parte centro-settentrionale dell’isola. Si racconta che gli ultimi colpi di su mazzolu, di accabadura insomma, siano assestati nel 1929 a Luras e a Orgosolo nel 1952. Pare che questi fatti siano documentati per un successivo intervento della Giustizia ma di molti altri se ne parla solamente e si perdono nella notte dei tempi. Qualche vecchio sardo ne parla ancora come un fatto accaduto durante la sua infanzia, senza ben ricordare se il “servizio” sia stato reso ad un parente o a un conoscente.
Per i più curiosi il termine accabadora è di derivazione spagnola, lingua nella quale acabar significa finire. Stesso significato ha preso in sardo la parola Accab.
Tornando alla signora di nero vestita, alcune narrazioni locali la vogliono di vestita di orbace quando porta la morte e di bianco la vita. Parliamo quindi con molta probabilità di un doppio lavoro svolto dalla levatrice, figura molto presente nella realtà rurale italiana sino a non molti decenni fa. Quale che sia il suo lavoro diurno, qui la presenza di s’accabadora è considerato un fatto naturale, inserito nel ciclo di una vita duramente condotta con i tempi del sole e della luna. Dove della morte non si ha paura, si affronta e alle volte si dà.
Comprendo che possa nascere ma lascio ad altri un eventuale dibattito sulla moralità di questa forma arcaica di eutanasia. Certo la pratica di abbacamento genera molteplici questioni, morali nonché etiche. Filosofi, sociologhi, teologi e numerosi altri studiosi dell’umanità e dei suoi fenomeni da tempo immemore si domandano se porre fine a una vita, ancorché di un essere sofferente e privo di speranza, sia giusto o addirittura doveroso. Nella società occidentale attuale pare da ultimo prendere forma una decisione favorevole a questa scelta e alcuni stati ha normato la questione, non senza forti contrasti sociali, politici e religiosi al proprio interno.
Tornando alla Sardegna, quella della s’accabadora non è certo l’unica tradizione “particolare”, molte altre ne esistono, di affascinanti e misteriose, maturate in quello che per molti secoli è stato un mondo a parte, di una bellezza selvaggia e aspra, dimenticato da tutti, arcaico, forse primitivo, avvolto su sé stesso e per questo capace di esprimere una sua cultura, una sua arte, un suo singolare modo di vivere le cose della vita.
Ajò, si è fatto tardi.
Giulio Valerio Santini
Fonti: www.unionesarda.it; www.greenme.it; www.wikipedia.org