L’anno elettorale europeo si apre all’insegna di un qual certo pessimismo indotto dalle condizioni generali del pianeta, invero serie, fra emergenza climatica e guerre devastanti. Anche all’interno dell’Unione le cose non vanno per il meglio, a fronte di una perdurante carenza di leadership politiche capaci di immaginare e inventare il futuro, richiamo inevitabile a pochi giorni dalla scomparsa di Jacques Delors, il Presidente della Commissione che seppe far progredire l’Unione come nessun altro, prima e dopo di lui, ha saputo e potuto fare.
La regola dell’unanimità impedisce qualsiasi eventuale scatto in avanti verso una costruzione europea sempre più federale e imbriglia qualsiasi idea innovativa, perché c’è sempre qualcuno che per vari motivi può trovare ragioni per un dissenso. E quindi non se ne esce. Tutti sanno, chi con maggior consapevolezza chi con minore, che nel mondo globale solo unita l’Europa potrà far fronte alle sfide indotte dai nuovi assetti geopolitici che andranno a determinarsi anche in conseguenza degli sviluppi demografici planetari oltre che di quelli tecnologici, che come ormai noto hanno reso edotti i popoli delle troppo accentuate differenze nel tenore di vita fra nord e sud del mondo, non più tollerate né tollerabili.
Eppure quell’Europa unita fatica a imporsi non solo nelle agende dei politici, rimanendo confinata nei titoli, nel “to do” generale della politica, ma pure nelle teste dei suoi cittadini i quali ogni volta che minaccia tempesta immaginano di trovare riparo sotto il tetto comune nazionale e non sotto quello comunitario, ritenuto evidentemente insicuro, pieno di buchi magari poco visibili ma esistenti e quindi non atto a proteggere adeguatamente chi vi si volesse riparare sotto.
Le elezioni di giugno ci diranno dunque in quale stato di salute versa l’Unione e se le preoccupanti ascese elettorali locali di partiti nazionalisti di varia foggia e natura saranno confermate in chiave continentale. Come diversi segnali e alcuni sondaggi paiono indicare. Colpisce positivamente, allora, in questo quadro non proprio esaltante, il soprassalto di coraggio col quale i Ventisette hanno saputo, anzi voluto fortemente, aprire le porte comunitarie alla martoriata Ucraina, oltre che alla piccola Moldavia: un via libera al possibile allargamento ottenuto attraverso un escamotage che ha consentito alla ritrosia ungherese di manifestarsi senza però impedire la scelta decisa dagli altri 26 partner. Un espediente (quando si è votato, il premier Orban si è assentato e così il suo voto è venuto meno, pur rimanendo la sua contrarietà, successivamente ribadita) che testimonia una volta di più le difficoltà imposte dalla regola unanimistica, che comunque in questa circostanza è stata aggirata: chissà, forse anche perché i tempi del processo di adesione sono lunghi, indefiniti, tutt’altro che certi…
In ogni caso, un atto di coraggio. Non è poco, anche perché i precedenti destano una qualche inquietudine. Nell’aprile 2008 al vertice NATO tenuto a Bucarest si ipotizzò, forse sbagliando i tempi, una possibile adesione di Ucraina e Georgia all’Alleanza e pochi mesi dopo la Russia invase la seconda. Cinque anni e mezzo più tardi la piazza di Kiev insorse chiedendo a gran voce più libertà, più democrazia, più Europa e l’anno seguente, 2014, il Cremlino decise l’annessione della Crimea e delle regioni orientali ucraine del Donetsk e di Luhansk. Otto anni dopo, ecco “l’operazione militare speciale”. Che Putin riterrà conclusa solo quando “tutti gli obiettivi saranno raggiunti”, prevedendo un arco temporale non inferiore al lustro. Confidando in un cambio di guida a Washington e nella stanchezza dell’elettorato europeo, che il prossimo giugno dovrebbe manifestarsi con un voto diffuso ostile alla “maggioranza Ursula” che ha guidato l’Unione in questo quinquennio. Anche questo tema, davvero non banale, gli elettori troveranno dentro l’urna. E’ bene che venga loro ricordato.
Foto ©European Union 2016