Nel corso della settimana si sono insediate le camere. È iniziata la XIX Legislatura. E come primo atto politico dei nuovi eletti ci ritroviamo come Presidente del Senato Ignazio Benito La Russa, uno degli ultimi eredi della tradizione politica che dai reduci della Repubblica sociale italiana, passando attraverso il Movimento sociale italiano, è giunto fino ai giorni nostri dando vita alla formazione di Fratelli d’Italia. Un post-fascista, insomma. Ma anche un politico di razza, come fra i banchi del Parlamento italiano se ne trovano sempre meno.
Tutta colpa di Palmiro Togliatti, verrebbe da dire, se la Repubblica fondata sull’antifascismo, come ci ha ricordato nel suo discorso inaugurale delle attività del Senato Liliana Segre, si ritrova come seconda carica istituzionale dello Stato un post-fascista. Eh, sì perché fu proprio Togliatti, allora Ministro della giustizia, a volere con forza l’amnistia nei confronti dei personaggi che avevano avuto un coinvolgimento nel regime fascista, sia nella politica che nella pubblica amministrazione. E così facendo apri da subito la strada alla nascita, il 26 dicembre del 1946, del Movimento sociale italiano, fondato proprio dai reduci repubblichini. Certo, Togliatti ebbe il merito di comprendere come il ricorso a liste di proscrizione non avrebbe ottenuto altro esito che esacerbare gli animi degli italiani, molti dei quali avevano offerto il loro sostegno al regime soprattutto negli anni del suo splendore. E poi come si sarebbe potuto fare con la pubblica amministrazione, dove dirigenti, funzionari, prefetti, questori venivano tutti dalla macchina amministrativa dello stato fascista? Una soluzione pragmatica e di pacificazione, quella di Togliatti, che tuttavia ci diede in eredità, oltre alla libertà della Repubblica democratica fondata sul lavoro e sull’antifascismo, il lascito contraddittorio e irrisolto di chi si era riconosceva nel fascismo di Mussolini fino alla decadente ma orgogliosa esperienza della Repubblica sociale.
Però l’elezione di La Russa non porta con sé soltanto le responsabilità della storia, ma anche quelle un po’ più prosaiche e contemporanee, di chi ieri nel segreto del catafalco senatoriale lo ha votato. Anche perché fatti i conti, e sottratti ai 215 voti di cui avrebbe dovuto disporre La Russa rispetto alla maggioranza di centro-destra quelli di Forza Italia, che ad esclusione di Berlusconi e Casellati, non hanno partecipato al voto, il neo presidente del Senato ha comunque raggiunto le 216 preferenze che ne hanno determinato l’elezione. E poiché la matematica non è un’opinione è evidente che è stato votato anche da senatori dell’opposizione. I sospetti, in tal senso, si concentrano soprattutto su Renzi e i suoi fedelissimi (sembrerebbe, invece, non i senatori di Calenda, che se dobbiamo credere a ciò che dichiarano i post-fascisti non li votano; è c’è da crederci, visto che Calenda, pur nella sua volubilità strategica, è tipo fedele alle scelte di principio). Ma i voti dei renziani non bastano a raggiungere quota 216. E allora, al netto di tre senatori a vita (Cattaneo, Monti e Rubbia) i cui sì sono dati per sicuri, si deve inevitabilmente cercare qualche voto fra i senatori del Pd e del Movimento 5 stelle.
Le motivazioni che potrebbero aver indotto una pattuglia di senatori dell’opposizione ad andare in soccorso di La Russa così da compensare il mancato sostegno di Forza Italia sono facili da comprendere. Oltre alla Presidenza, nei prossimi giorni saranno in gioco le vice Presidenze, sia del Senato che della Camera, oltre alle Presidenze delle cosiddette Commissioni di garanzia, come la vigilanza Rai, e di organismi come il Copasir. Così come vi è da stare certi che il supporto di questi parlamentari fosse già deciso dal giorno prima, cioè dal momento in cui Giorgia Meloni si è resa conto che la protesta di Forza Italia per il veto opposto alla Ronzulli come ministro, avrebbe portato il partito di Berlusconi a far mancare il proprio sostegno all’elezione di La Russa. Del resto, quando il capogruppo uscente di Fratelli d’Italia al Senato, Luca Ciriani, intervistato da Vespa a “Porta a Porta” mercoledì sera aveva dato per certa l’elezione di La Russa già il giorno dopo, si poteva chiaramente intuire come la Meloni avesse per tempo pensato a un “Piano B”.
Un vero e proprio “capolavoro d’aula”, come hanno voluto sottolineare alcuni senatori ieri, subito dopo l’elezione di La Russa. Un capolavoro, che a naso, potrebbe portare la firma di Matteo Renzi, a nostro avviso non solo per la piccola pattuglia di fedelissimi di Italia Viva, di per sé non sufficiente ad assicurare a La Russa il supporto necessario, ma anche per qualche senatore presente fra le fila del Pd che però gli è rimasto legato. Inoltre, un ulteriore contributo all’elezione di La Russa potrebbe essere venuto dal Movimento 5 stelle, alla ricerca di spazi di visibilità in una legislatura che non lo vedrà più protagonista centrale come in quella che si è appena conclusa. Ad ogni modo, una conferma di quanto accaduto e di chi ne siano stati i protagonisti l’avremo già nelle prossime settimane, quando il progressivo disegnarsi di una serie di incarichi istituzionali, a cominciare dalle Vice Presidente dei due rami del Parlamento, permetterà di capire le ricompense collegate al voto di ieri.
Ma al di là di questi aspetti, e senza indugiare troppo nel gossip, vi sono alcuni importanti dati politici che si impongono all’intenzione degli osservatori e dell’opinione pubblica rispetto a quanto accaduto ieri al Senato. In primo luogo, la fragilità della nuova maggioranza di centro-destra, che se da un lato ha avuto la meglio presentandosi unita alle urne dall’altro oggi si manifesta come un semplice cartello elettorale, diviso da protagonismi personali che sono anche espressione di profonde divisioni politiche (come, per esempio, dietro al conflitto fra Meloni e Ronzulli). In secondo luogo, l’endemica vocazione “trasformista” della politica italiana, della quale ormai il Parlamento rappresenta la manifestazione più plastica e concreta. Non dubiti la Meloni, semmai la sua maggioranza dovesse aver bisogno di qualche aiuto, nelle aule di Palazzo Madama e Montecitorio non faticherà a trovare persone disposte a darglielo. In terzo luogo, la spasmodica ricerca di un ruolo “pivotale” e da protagonista del cosiddetto Terzo Polo, interpretata da un Renzi che non ha fatto in tempo a sedersi nuovamente sugli scranni del Senato per tornare a esercitarsi nelle manovre di palazzo che più gli sono congeniali. Anche se questa strategia potrebbe fin d’ora pregiudicare i rapporti fra Renzi e Calenda, soprattutto se quest’ultimo non dovesse condividere fino in fondo le incursioni corsare nel campo avverso del suo partner di coalizione. In quarto luogo, anche se è più complicato riconoscerne i segni, il ritorno della vocazione trasformista del Movimento 5 stelle sotto la guida ormai incontrastata di Conte, che nel momento in cui si dice progressista non sembra comunque disposto a cedere il primato di campo al Pd, soprattutto rispetto all’assegnazione delle cariche per l’opposizione che non intende lasciare nelle mani dei soli democratici.
Da ultimo, un dato politico non meno importante, che riguarda il Pd e il suo segretario, ieri rimasti ai margini rispetto a tutto ciò che è successo. Forse Letta avrebbe potuto subodorare quel che si stava preparando, dopo la decisione di non partecipare al voto di Forza Italia. E avrebbe quindi potuto optare per il sostegno a un “candidato di bandiera”, giusto per non lasciare a briglie sciolte, e sostanzialmente fuori controllo, i suoi senatori. Ma ciò che ancor più conta, soprattutto per le prospettiva che attendono il Pd in questa legislatura, che fin d’ora si annuncia vivace, è che forse il gruppo dirigente democratico, a cominciare dal suo leader (anche se ormai prossimo all’uscita di scena), dovrebbe pensare un po’ meno in grande e invece che assecondare quella disastrosa illusione che lo induce a ritenersi al centro dell’universo politico, comprendere che nel mondo ci sono anche gli altri, non solo una maggioranza ma anche un’opposizione, plurale e articolata e soprattutto non disposta a farsi condurre dal PD. La centralità politica si deve conquistare sul campo e per avere un esempio di quanto una maggiore umiltà sia al momento aliena al gruppo dirigente democratico, basti guardare a ciò che è successo ieri: il Pd, volendo ergersi a un ruolo di guida che nessuno gli ha fin qui riconosciuto, chiedeva all’opposizione di essere compatta; ma è successo proprio il contrario, con un liberi tutti che alla fine ha permesso al centro-destra di superare le difficoltà del momento e di eleggere il proprio candidato alla Presidenza del Senato. E proprio quanto accaduto dovrebbe valere da monito, per far comprendere come nello scenario della prossima legislatura sarà assai difficile, se non impossibile, mettere in campo un’opposizione coesa, a maggior ragione sotto la guida del partito che tutti, dal centro-destra al Terzo Polo, senza dimenticare i 5 Stelle, hanno trattato come bersaglio nella campagna elettorale. Ma se fino a qualche mese fa, occupando posizioni di governo, sarebbe stato assai difficile non considerarlo come interlocutore, oggi il PD, dai banchi dell’opposizione, rischia di essere condannato all’indifferenza.