Antonio, grazie anzitutto per la tua disponibilità. Ci conosciamo da tempo ma non abbiamo mai avuto l’occasione di parlare della tua professione che poi è anche la tua grande passione. Avrei già voluto chiederti perché hai scelto la fotografia per esprimerti, lo faccio ora.
Provengo da una famiglia di poeti e pittori, e trovare una mia strada in un contesto così artistico non è stato facile, soprattutto durante l’adolescenza, un periodo in cui si cerca sempre un modo per affermarsi. Ho provato con la chitarra, ma con scarsi risultati. La svolta è arrivata quando mio padre mi ha regalato una macchina fotografica. Essendo timido, la fotografia mi permetteva di rompere il ghiaccio e di fotografare chiunque, senza dover necessariamente parlare.
La magia della fotografia è proprio questa: è un linguaggio universale che permette di raccontare storie ed emozioni senza bisogno di parole. Puoi fotografare un oggetto o una persona registrando solo quello che il tuo occhio vede, ma anche molto di più: puoi catturare un’emozione, un’atmosfera, un momento che altrimenti andrebbe perduto.
Ho scelto la fotografia per raccontarmi perché attraverso l’obiettivo riesco a esprimere aspetti di me stesso che con altre forme d’arte non riuscirei a comunicare. La fotografia è diventata il mio modo di esplorare il mondo e di connettermi con le persone. Attraverso ogni scatto, cerco di condividere una parte di me, di mostrare la mia visione del mondo e di suscitare emozioni negli altri.
Prima di questa intervista ho letto di te su alcune riviste di fotografia e una cosa mi ha subito colpito. Non hai frequentato scuole di fotografia e quindi sei un autodidatta. Raccontaci di questa scelta, che certo ha influenzato il tuo percorso.
Ho iniziato come tanti, da fotoamatore, ma durante il mio percorso durato sette anni ho capito che poteva nascere qualcosa di diverso e che la fotografia poteva diventare la mia professione. Ho quindi deciso di abbandonare gli studi di ingegneria per dedicarmi completamente alla fotografia, in un primo momento di still life e poi anche beauty. Utilizzavo luci autocostruite, sperando e ottenendo piccoli miracoli. Nella città in cui vivevo, non era facile trovare librerie fornite di testi fotografici, così trascorrevo intere giornate in biblioteca. Non avevo fotografi di riferimento, ero come una tela bianca da coprire.







Immagini scattate da Antonio Schiavano nel 1982 e appartenenti al suo primo portfolio, in cui si riesce a percepire come il suo DNA artistico avesse già una sua impronta ben definita.
Quando creai il mio primo portfolio, decisi di trasferirmi a Milano per scommettere su me stesso e aprire il mio studio. Ci riuscì dopo qualche anno; il 10 Watt prese vita nel 2000, a otto anni esatti dal mio arrivo a Milano e dopo una” coabitazione” con Renato Marcialis, un altro fotografo e amico fraterno destinato a divenire famoso. L’incontro con Alberto Nodolini, art director di Vogue, mi aprì poi la strada e iniziai subito a lavorare. Dopo sei mesi pieni di lavoro, iniziò la fase discendente: i vari clienti capirono che non ero ancora pronto per essere un fotografo professionista, ma solo un fotografo tenace con tante idee. Capii allora che per smettere definitivamente di essere un fotoamatore era necessario allenarsi fotografando tutti i giorni al fine di garantire un risultato sempre e comunque. Per i successivi sei mesi, ogni giorno fotografavo come se avessi una committenza, stabilendo ogni dettaglio.
Imparare da soli ha i suoi vantaggi. Se avessi frequentato una scuola o fossi stato assistente, probabilmente non avrei fatto questi errori, ma quasi certamente avrei assimilato la conoscenza dell’insegnante o del fotografo maestro. Il mio obiettivo era quello di non essere spugna di nessuno, nulla da me doveva essere assorbito.
Antonio tu pratichi sia la fotografia commerciale sia la fotografia fine art. Le definizioni già ci aiutano a capire ma vorrei che ci spiegassi meglio e ci aiutassi a comprendere.

Nella fotografia commerciale, mi confronto sempre con un committente, che sia un’agenzia o un cliente diretto, e oggi sono sempre più preparati dal punto di vista fotografico. Questo significa che le aspettative sono elevate e precise. Anche se c’è spazio per la creatività, questa potrebbe essere smussata dalle esigenze del cliente e dai limiti del brand.

Al contrario, nella fotografia fine art, ho completa libertà creativa. Non ci sono committenti a cui rispondere, quindi posso prendere tutte le decisioni artistiche da solo. L’obiettivo è esprimere una visione personale, raccontare una storia o evocare emozioni. Le immagini possono essere più concettuali e meno immediate nella loro comprensione. Qui, devo decidere se rivolgermi a un pubblico ampio e diversificato, creando immagini di facile comprensione, oppure se tirare fuori la mia personalità, sapendo che non tutti potrebbero apprezzarla o comprenderla.
Non sono un esperto ma nelle tue foto percepisco sempre qualcosa di molto intimo, profondamente tuo. Azzardo, c’è la tua anima, anche nelle foto di still life. In che modo la fai emerge nei tuoi lavori, cosa metti o cosa togli dai tuoi soggetti?
Less is more e riduco le mie immagini al necessario. Mi concentro su ciò che è veramente necessario per trasmettere l’emozione o il messaggio che voglio comunicare.
Adoro la figura del cerchio, che anche se vuoto è allo stesso tempo pieno, e il colore bianco, che è la somma di tutti i colori. Questi elementi spesso influenzano la mia composizione e il mio approccio visivo. Quando fotografo, mi sento libero e mi lascio sedurre dalla bellezza intrinseca degli oggetti o dei soggetti, trasformandoli in una sorta di tavolozza di colori. Mi piace fotografare da molto vicino, esplorando particolari che solitamente l’occhio non percepisce perché non osserva attentamente. Questo avvicinamento mi permette di scoprire e rivelare dettagli nascosti, texture, e sfumature che aggiungono profondità e significato alle mie immagini. È in questa intimità e attenzione ai piccoli dettagli che cerco di catturare l’anima dei miei soggetti, trasformandoli in qualcosa di più grande e universale.



L’affermazione dei Social ha stravolto la nostra vita, non sempre in meglio. Immagino che abbia cambiato anche la tua professione. Cosa ci puoi dire al riguardo?
Ci sono troppe immagini, il mezzo fotografico è diventato estremamente democratico, ma spesso non viene sfruttato al massimo della sua potenzialità. Sui social puoi trovare miliardi di fotografie, ma non trovi poesie. È interessante notare che, nonostante l’analfabetismo sia quasi scomparso e tutti sappiano leggere e scrivere, non c’è una diffusione delle parole paragonabile a quella delle fotografie.
Fino a quindici anni fa, fare fotografia era difficile, un vero mistero tecnico, una sorta di scatola nera che pochi sapevano usare. Anche se la Kodak promuoveva lo slogan “voi schiacciate un bottone, al resto pensiamo noi”, la fotografia non era per tutti. Oggi, invece, chiunque può scattare una foto e condividerla istantaneamente con un vasto pubblico sui social media. Questo offre una grande opportunità ma anche una grande responsabilità, poiché il tuo lavoro è immediatamente sottoposto al giudizio di una sorta di giuria online.
Ogni volta che aggiorno il mio account Instagram sono consapevole del fatto che qualcuno parlerà male di me e magari qualcun altro invece sarà rispettoso del mio lavoro. Quello che conta è rimanere fedeli alla propria visione, indipendentemente da quante persone la osservino e interagiscano con essa. La vera differenza sta nel raccontare una storia: se non hai qualcosa da raccontare, la foto è inutile e fine a sé stessa. Realizzare una foto oggi non significa solo creare un’immagine esteticamente bella, ma deve trasmettere un’emozione e rispondere alle tue necessità espressive.
In un mondo saturo di immagini, la chiave è trovare una voce autentica e distintiva che riesca a emergere e a comunicare qualcosa di significativo. La fotografia, come ogni forma d’arte, deve andare oltre la superficie e toccare le corde dell’emozione umana, creando una connessione reale con chi la osserva.
Se ho ben compreso un bravo fotografo è sempre un artista. Tu dunque sei un artista e quindi vivi di creatività. Come si concilia questa natura con le esigenze dei committenti, che spesso impongono layout stringenti?
Credo dipenda dal grado di libertà che il committente è disposto a concedere al fotografo. Quando viene richiesto di riprodurre un layout in modo fedele, il ruolo del fotografo può diventare simile a quello di uno scanner o di una fotocopiatrice. Questo approccio è comune nella pubblicità patinata, dove le immagini sono spesso vincolate rigidamente ai colori e ai temi del brand, risultando in immagini e video che possono rasentare il ridicolo. In questi casi, la creatività del fotografo è fortemente limitata, poiché il focus è sulla conformità piuttosto che sull’innovazione. Questo tipo di lavoro tende a produrre risultati piatti e prevedibili, senza spunti coraggiosi o innovativi.
D’altra parte, quando invece la committenza permette al fotografo di rispettare il layout entro certi limiti, ma valorizza il suo punto di vista e il suo stile, si possono ottenere lavori unici e indipendenti. In questo scenario, i paletti non sono barriere rigide ma guide che permettono al fotografo di esplorare e innovare, mantenendo al contempo una coerenza visiva con il brand.
Il problema principale è che, spesso, i clienti e le aziende sono riluttanti a correre rischi. Preferiscono rimanere entro confini sicuri e prevedibili, portando ad una comunicazione piatta e priva di coraggio: un atteggiamento che come sostenuto da Oliviero Toscani, ha portato il marketing a deteriorare la comunicazione visiva. La massima di Martin Luther King, “Un giorno la paura bussò alla porta. Il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno“, riflette bene questa dinamica: la paura di fallire o di deviare dagli standard consolidati soffoca l’innovazione e la creatività.
Nell’immaginario collettivo ogni artista convive quotidianamente con il terrore di perdere la propria creatività; di trovarsi senza parole da scrivere, senza idee da realizzare. Cosa ne pensi Antonio?
Se l’artista inizia a pensare di poter perdere la propria creatività, il panico può facilmente insinuarsi, ostacolando il flusso creativo. Io personalmente considero la creatività come una risorsa infinita, insita in ogni azione o pensiero, ma con un costante bisogno di essere alimentata e coltivata.
Antonio un’ultima domanda. Per fare fotografia ad alto livello quanto è necessario possedere un bagaglio culturale importante?
Penso che la cultura sia necessaria per svolgere qualsiasi professione, ma purtroppo con la nuova semplicità del mezzo fotografico è molto comune pensare che sia facile intraprendere questa professione. La differenza rispetto a qualche lustro fa è che essendo scomparso il mistero della fotografia analogica, son sufficienti poche nozioni tecniche per proporsi come fotografo, ma è sopraggiunta una nozione più complessa da apprendere: un nuovo linguaggio fotografico che non mira al documentare, ma al raccontare.
Grazie Antonio. So che ora devi andare ma ho la tua promessa che tornerai qui a raccontarci altro di questa tua grande passione, l’amore della tua vita, la Fotografia.
Foto di Antonio Schiavano
Piacevole intervista. Complimenti dott. Santini
ma chi è?