Sono un uomo fortunato perché sono stato un lavoratore fortunato
Il destino ha voluto che, dopo diverse esperienze lavorative e una laurea, fossi assunto da una banca a carattere regionale ma già allora con una visione moderna nel rapporto con i propri lavoratori. La piccola banca, con una complessa operazione di incorporazione multipla, si sciolse in una banca grande, non solo per dimensioni.
La banca incontrò poi un’altra grande banca e la loro fusione diede vita a Intesa Sanpaolo. Una banca, gruppo a livello europeo.
Tutte queste realtà che ho attraversato, divenendo anche dirigente, hanno avuto un’attenzione elevata per le loro persone, un elemento insostituibile del loro patrimonio.
Un’attenzione concreta che ha la sua punta di diamante in un welfare integrato: assistenza sanitaria integrativa, previdenza integrativa e molto altro.
Grazie in particolare al Fondo Sanitario Integrativo ho sempre potuto accedere, in tempi rapidi, a prestazioni mediche e diagnostiche di qualità con rimborsi pressoché totali.
Questa opportunità mi ha dato modo di avere una visione diretta del sistema sanitario privato per lungo tempo e coglierne le trasformazioni, positive e negative.
Negli ultimi anni ho avuto modo di rilevare almeno un fenomeno spiacevole che si è cronicizzato. Quello delle attese, intendo dire il tempo trascorso in sala d’aspetto prima di essere visitati. Siamo pazienti e quindi ci mettono alla prova?
La parola “paziente” porta con sé un duplice significato
Da un lato, indica colui che si sottopone a cure mediche; dall’altro, richiama la virtù della pazienza, della capacità di sopportare con calma le avversità.
Come anticipavo mai come oggi questa ambiguità linguistica sembra calzare a pennello con l’esperienza di chi si rivolge a medici e specialisti nel settore privato, spesso costretto a lunghe attese nonostante tariffe elevate.
La domanda sorge spontanea: perché chi paga diverse centinaia di euro per una visita dovrebbe anche essere paziente nel senso di rassegnato?
Perché mi devono rubare il mio bene più prezioso, il mio tempo?
Il business della salute: quando il profitto soffoca l’etica
Negli ultimi anni, il sistema sanitario privato si è trasformato in un’industria sempre più orientata al profitto. I medici, anche specialisti di fama, spesso accettano un numero eccessivo di appuntamenti, causando inevitabili ritardi e sovrapposizioni. Questa corsa al guadagno rischia di compromettere non solo la qualità della diagnosi e del trattamento, ma anche il rapporto umano tra medico e paziente.
Come può un professionista della salute offrire un servizio adeguato se il tempo a disposizione si riduce a pochi minuti per ogni visita?
Spesso si esce da una visita perplessi dall’atteggiamento del medico. Ci accoglie con un “mi scusi del ritardo ma…”, nel dirlo magari non alza nemmeno lo sguardo.
Le grandi e potenti catene di cliniche private convenzionate rappresentano il nuovo volto del business sanitario: strutture che, pur offrendo servizi di qualità, adottano strategie di overbooking per massimizzare i profitti.
Il risultato è un sistema in cui il paziente diventa un numero e la medicina perde la sua componente umana. L’etica medica sembra sempre più subordinata alle logiche di mercato, mettendo in secondo piano il benessere del malato.
Uno sguardo alla storia: da Ippocrate alla sanità commerciale
La medicina ha sempre avuto un rapporto profondo con l’etica. Già Ippocrate, nel V secolo a.C., stabiliva principi fondamentali per la professione medica, come il dovere di curare i pazienti con dedizione e senza secondi fini economici. Nel Medioevo, la figura del medico era spesso legata agli ordini religiosi, e il concetto di assistenza gratuita era radicato nel tessuto sociale. Il medico era visto come un custode della salute pubblica, non come un imprenditore.
Oggi, con la crescente privatizzazione del settore, l’ideale del medico come figura votata al benessere del paziente sembra affievolirsi e forse è già annientata. I miei genitori mi raccontavano di come medici, anche molto famosi, dedicassero ore alle loro visite, approfondendo ogni dettaglio con attenzione.
Questo approccio appare oggi quasi utopistico, sostituito da una gestione frenetica e impersonale del tempo medico.
Le conseguenze di un sistema distorto
Oltre al disagio delle lunghe attese e ai costi elevati, il sovraffollamento delle visite comporta un rischio tangibile: diagnosi affrettate, trattamenti meno efficaci e una sensazione di abbandono nei pazienti. Chi cerca cure mediche dovrebbe ricevere attenzione, empatia e tempo, non sentirsi parte di una catena di montaggio sanitaria.
In un contesto in cui l’efficienza economica prevale sulla qualità dell’assistenza, la fiducia tra medico e paziente si sgretola. Questo genera frustrazione, senso di impotenza e, in alcuni casi, anche il rischio di errori medici.
È inaccettabile che chi affronta ansie e preoccupazioni legate alla propria salute debba subire anche la pressione di un sistema che lo considera una mera fonte di reddito.
Una necessaria riflessione
Il paziente di oggi non dovrebbe essere solo un cliente che paga e aspetta, ma un individuo che riceve il giusto tempo e la giusta attenzione. È necessario un cambio di paradigma: meno overbooking, più rispetto per chi cerca aiuto. La medicina deve tornare ad essere un’arte umana, non solo un meccanismo per generare profitti.
Forse è arrivato il momento di ribaltare la prospettiva: non è il paziente a dover essere paziente, ma il sistema sanitario a dover recuperare la sua umanità.
Se la medicina vuole davvero definirsi una professione al servizio dell’uomo, deve mettere al centro la persona, non il guadagno.