Se è vero, come è vero, che il titolo di un’opera è la sua cifra di decodificazione, questa volta bisogna spostarsi al rigo di sotto e approdare sul titoletto in corsivo, che propone i “segni accesi” come viatico in forma di password. E che fosse una chiave di volta per una probabile ipotesi di una specie di salvezza lo si percepisce già dal primo brano, leggero, ma incardinato con forza sull’ultima spinta dell’utero che scaraventa nella luce vitale del cielo il primo grido, difficile, ma gioioso.
Non c’è forza più esplosiva di una nascita.
È così che si schiude questa specie di piano di cura che si sviluppa per tutto il volume come un caos leggero di immagini, di percezioni che battono al senso del corpo e all’emozione della mente, di memorie esplose inavvertite e pericolose, di misteri riemersi senza preavviso, di silenzi loquaci e di afasici rumori, di atmosfere dove le inquietudini di oscuri disegni lottano e si alternano alle limpide epifanie dell’oltreorizzonte.
Mi sembra questo il tratto distintivo di una trama poetica che percorre un itinerario semantico di piena libertà, ma anche di sorvegliata selezione paradigmatica. In virtù della multiforme pienezza del magma esistenziale, la materia poetica scorre fluida, guida e spinge le dinamiche ordinatrici del costrutto polisensoriale di questa scrittura, ne flette le esuberanze in percorsi di significati che si inseguono ma non fanno ressa. Certo è un cammino accidentato quello della condizione poetica, e non per la fatica di scavare dal passato memorie (che, anzi, emergono e si congiungono al presente per uno slancio conoscitivo prezioso) ma per quell’asciutta fragilità indotta da un presente che non aiuta a liberarsi della “banalità del male”.
E dunque non può passare sotto silenzio il dramma che si consuma “nella fossa dei migranti” dove il dolore si condensa nello strazio dell’addio al villaggio, nel sogno bruciante delle città morbidelucenti, nella sete che alla fine si abbevera in fondo al mare e libera l’uomo dal disumano.
Certo è un percorso che non lascia tregua al dubbio “perché sempre ubbidire / perché non nascondere il capo / nel sacchetto del pane / all’accostarsi solenne dell’angelo / a quel suo eterno gesto di creta azzurrina /” e, anche se le risposte dell’intelligenza e dell’imperativo morale albeggiano in sottofondo, restano le ragioni abissali della natura che intorno si compone e si dispone, (”deve esserci nascosto un non so che di vivo / nel rumore della pioggia nel silenzio della neve / nella rabbia della grandine”) a ricordare “il volo abissale” a cui bisogna allenarsi. “Salgo mi metto comoda sui cirri / sotto il capo un cuscino / di foglie di limone all’uso greco”, dove l’uso greco disvela un archetipo permanente stratificato di cultura classica e di territorio contiguo del luogo di appartenenza, e cioè la Puglia che respira lo stesso vento della Grecia.
Cosicché questa specie di terra della sorte riaffiora sistemicamente (“quel flauto di Pan, l’albero-dea Mirra, il piccolo Adone dalle guance rosa, dolce Euridice”), come pure suggestione omerica è la similitudine Ulisse-sirene-poeta, (saremo sirene disperate / aggrappate ai fianchi delle navi / a soffiare le note strozzate / sui naviganti legati al palo / storditi….) e si propone come erlebnis elementare per la costruzione di ogni esperienza linguistica possibile.
A questo archetipo riconduce la sottocategoria esistenziale della percezione della natura spesso enunciata nella sua esplosione di luce, di vitalità, di energia, anche nelle accezioni disforiche, e si riconosce in una terra solare dagli intensi profumi e dai panorami belli, di una bellezza a volte soffocante. È su questa matrice che si innesta l’urgenza di parlare il silenzio, di dire l’afasia di uno spazio denso di emozione (“respiro mare / in questo spazio al sud / d’acqua e silenzio / dove la riva affabula /di vita in senso senza / bisogno di parole”), urgenza che si dichiara pienamente nel funzionale equilibrio tra codice denotativo (mare, spazio, sud, acqua, riva, vita, parole) e codice connotativo (respiro mare, affabula, senso, bisogno).
- Il volume “Per segni accesi” è una testimonianza di capacità e di maturità del fare una poesia che percorre tracce di tradizione lirica, ma innervate di innovazione per i notevoli processi linguistici anche desueti. Ad esempio molto ricorrente è l’abbinamento di lemmi dello stesso, o di diverso fascio semantico ( delusetristi, maremistero, nascitamistero, polveresilenzio, domandepietre) con accostamenti sinestetici o ossimorici di sicuro effetto emotivo.
Anna Maria Ferramosca è poeta esperta di percezione del poetico e del linguaggio che alla poesia attiene e questo volume ne è chiara testimonianza. Per questo riesce a consegnarci le/la password per aprire la via della consapevolezza della terra e dell’oltre, del vivere e del morire.
Per segni accesi
Giuliano Ladolfi Editore, 2021, introduzione di Maria Grazia Calandrone