Sono passati più di 100 giorni dal mio rientro in Italia dopo una breve, ma intensa, missione umanitaria in Ucraina. Sembra passata un’epoca, la guerra non fa più notizia, l’opinione pubblica si è già abituata agli orrori di un conflitto armato nel fianco est dell’Europa. I quotidiani non dedicano più le prime pagine. Quando sono partito, ad inizio marzo, l’aggressione della Russia era appena iniziata. Lo sconcerto era forte, la solidarietà immediata. Certo non si dibatteva sulla parte da prendere in un conflitto a due. Era chiara l’esistenza di un aggressore e di un aggredito. Non c’era ancora la diffidenza e il distacco che invece oggi è riservato dall’opinione pubblica centro-europea (francese, tedesca e italiana in testa) all’Ucraina. E’ così: difficile dare un’interpretazione alle giravolte rapide del comune sentire, alla liquidità di opinioni e valori.
Ad inizio marzo la voglia di spendersi in prima persona, come si poteva, era forte. Così, in pochi giorni, l’Associazione europea Italia-Ucraina Maidan assieme ad un imprecisato numero di anonimi benefattori ha organizzato una carovana di solidarietà che ancora oggi ha il primato di persone salvate e materiale distribuito. Dieci pullman da 50 persone e un furgoncino, il mio, da dieci passeggeri. Destinazione: Cernivci, confine sud-ovest del Paese, tra Romania e Moldavia. Dogana d’accesso delle missioni umanitarie, all’epoca monopolizzate da svizzeri, italiani e turchi. Siamo partiti spinti da una grande voglia di aiutare, con un po’ di incoscienza, senza immaginare ciò che avremmo poi visto.
La paura. Quel che non si può vedere e solo percepire, già dalla Romania, dal nord montuoso e freddo della Romania, è invece scrutabile con gli occhi. La paura di un antico nemico nuovamente in forze e deciso ad annullare secoli di cultura e identità e decenni di indipendenza. I paesi ex sovietici, quell’est Europa mai diventato veramente Europa, la paura la conoscono per davvero. E lo raccontano a quanti si avventurano verso quei confini. Ai volontari raccontano con grande semplicità il timore di doversi difendere da uno degli eserciti più grandi del pianeta. Un esercito ben conosciuto, sia per crudeltà che per forza. I romeni, almeno ad inizio marzo, temevano una resa dell’Ucraina in tempi brevi e il terrore di un esercito nemico ai confini era palpabile. A Siret, ultimo avamposto romeno prima di arrivare in Ucraina, sono stati allestiti vari “punti” di smistamento e di accoglienza per le migliaia di persone in fuga dalla guerra. Anche a Siret, benché in Romania, il coprifuoco esisteva di fatto. Il “sospetto del cielo”, così ci veniva tradotto il più grande timore degli ucraini (la possibilità di missili dal cielo), era diffuso anche a Siret.
F. e L., il primo italiano in Romania da una vita e il secondo “bosniaco che la guerra l’ha fatta” (così si è presentato), ci hanno accompagnato oltre la dogana. Il loro supporto è stato fondamentale: per i documenti, per le traduzioni, per la conoscenza del territorio e, soprattutto, per i contatti con la resistenza ucraina. Quella resistenza che tanto ha fatto discutere nei giorni della Liberazione in Italia e che, grazie ad una rete di valorosi, ha consentito a molte donne, giovani e meno giovani e a tanti bambini di trovare salvezza oltre confine. F. e L. sono in contatto con “Luana” – così la chiamano, italianizzandola – una signora sulla cinquantina che gestiva una piccola mensa per operai a Cernivci. Quella mensa, da inizio conflitto, è stata trasformata da Luana in un rifugio. Quando suonano le sirene, le cantine si affollano. Quando l’allarme è passato, il locale è affollato da ragazze, mamme, nonne e tante famiglie giunte dall’est dell’Ucraina, da Sumi, da Charkiv, da Sjevjerodonec’k, da Donetsk. Da quelle regioni cosiddette russofone. Ma anche dalla capitale, in quei giorni assediata, quella Kiev dall’immenso fascino e dalla storia affascinante.
Per raggiungere quel rifugio siamo stati accompagnati per un lungo tratto dalla polizia di frontiera. “Questa parte del Paese non è ancora stata bombardata, ma temiamo sorprese. L’ordine dell’esercito russo è colpire i convogli sospettati di portare, oltre gli aiuti, anche le armi”. Ponti abbattuti dagli ucraini per ostacolare l’avanzata dell’esercito russo, avamposti militari, trincee, paesi deserti e strade vuote. Un clima surreale. Scenari difficili da descrivere. Da immaginario storico, qualcosa di letto nei testi scolastici. Eppure era tutto reale. Eppure quella è la realtà degli ucraini da tre mesi e mezzo. F. e L. traducono, ci conducono da Luana. In lontananza, una folla. Ci attendevamo più di cinquecento persone. Molti uomini, tutti padri, fratelli, figli, zii e nonni delle donne che poi sarebbero salite sui nostri mezzi. Tutti uomini che hanno accompagnato le loro mogli, figlie, nipoti, sorelle da Luana per farle fuggire.
Dopo più di tre ore, il tempo necessario per scaricare tutto il materiale raccolto in Italia – farmaci, vestiti, cibo e giocattoli per i bambini – il distacco. Quelle immagini tormentano ancora le mie notti. Il distacco dei figli dai padri, quei baci intensi, forse gli ultimi, tra moglie e marito, fidanzato e fidanzata. Quegli abbracci tra nipoti e nonni, seppur in età avanzata ancora capaci di combattere. E poi quei tanti ragazzi, diciottenni, che ci pregavano di salire con noi. I tanti “no” che abbiamo dovuto dire per evitare di essere accusati di favoreggiamento della diserzione.
Siamo ripartiti, alle 21.30 abbiamo raggiunto nuovamente la dogana, giusto in tempo prima di dover rimanere lì una notte intera (alle 22.00 i confini vengono blindati). Una fila interminabile di mezzi e di persone, a piedi, in fuga con un solo zainetto, un sacchetto e qualcuno con il cane o il gatto. “Avete fame? Avete bisogno di acqua” – chiedono in inglese quattro giovani ragazzi che passano di mezzo in mezzo lungo la colonna. Sono italiani, volontari della Croce Rossa. “Siamo arrivati ieri, distribuiamo i pasti al confine, staremo qui un po’. Dobbiamo raggiungere un orfanotrofio: c’è bisogno di bende, medicine”. Avranno avuto 20 anni.
Il tragitto per tornare in Italia mi è sembrato ancora più lungo dell’andata. Sul furgone, due famiglie: una giovane mamma e il figlio adolescente e nonna, mamma e nipote. Solo Ania parlava in italiano, è stata a Bergamo per dieci anni, lavorava come badante. Lei arriva da Sumi, con suo figlio è partita e ha lasciato il marito sul fronte. Mentre siamo in viaggio arrivano dei video sul suo cellulare. “Guarda, questa era la farmacia dove mi servivo”. Ora sono macerie. Lei non piange. Neanche suo figlio. Io e il mio compagno di viaggio, Filippo, sì. Chi si aspettava di vedere le conseguenze sui volti della guerra? Chi si aspettava un orrore così profondo?
È la guerra. Che sta andando avanti. Nell’indifferenza dei più. Pochi giorni dopo il nostro rientro, un convoglio della Croce Rossa è stato colpito dall’esercito russo. Da allora mi chiedo che fine abbiano fatto quei giovani volontari. Da allora sono in contatto con F. e L, con Ania, con Luana. Loro sono sul fronte, a resistere, con orgoglio e coraggio. A 85 giorni da quel viaggio, per molti, non ci sono più eroi in questa guerra. Io il volto degli eroi l’ho visto. E continuerò a descrivervelo.