Sergio Fabbrini, Professore di Scienza politica e Relazioni internazionali alla LUISS Università Guido Carli di Roma, di cui attualmente dirige il Dipartimento di Scienze politiche, dopo aver fondato e per lungo tempo diretto la prestigiosa School of Government. È fra i maggiori studiosi italiani di democrazie complesse e sistemi federali, come gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Vanta una consolidata esperienza internazionale, costruita in campo accademico insegnando in alcune fra le più importanti università del mondo (Berkeley, Harvard e Parigi, per citare le più importanti) e in ambito politico come consulente delle maggiori istituzioni dell’Unione Europea. A queste attività associa da tempo quella di editorialista del Sole 24 ore.
Gli chiediamo di fornirci una sua valutazione sui primi passi compiuti dal governo di Giorgia Meloni nel contesto internazionale ed europeo, in particolare rispetto all’idea di Europa che il nuovo Premier italiano ritiene più appropriata per il futuro dell’Unione.
L’esordio del nuovo governo italiano nel contesto internazionale, con gli incontri bilaterali che Giorgia Meloni ha tenuto nei giorni scorsi a Bruxelles con Roberta Metsola, Ursula von der Leyen e Charles Michel, sono stati accompagnati da interesse e preoccupazione, data l’importanza strategica che per il futuro del nostro paese riveste il tema della sua collocazione internazionale. Taluni hanno evocato scenari di tipo “polacco”, che potrebbero vedere l’esecutivo Meloni combinare una scelta nettamente atlantica con un orientamento decisamente euroscettico. Anche se il nuovo Presidente del consiglio sembra avvertire in maniera consapevole l’insieme dei vicoli che ne condizionano la collocazione internazionale in termini di scelta obbligata.
Credo sia troppo presto per poter rispondere in modo convincente. La visita a Bruxelles della premier Meloni ha avuto una carattere “esplorativo”. C’è da augurarsi che lei sia, comunque, consapevole della contraddizione in cui si trova. E’ la presidente di un raggruppamento del Parlamento europeo, “European Conservatives and Reformists”, che è atlantista ma antieuropeista; contemporaneamente è premier di un Paese, l’Italia, che non può essere antieuropeista, vista la sua collocazione nell’Eurozona. Una contraddizione governabile a Varsavia, difficilmente a Roma.
Gli incontri di Bruxelles sono stati preceduti dall’eco dall’idea che Giorgia Meloni ha di ciò che dovrebbe essere e rappresentare l’Unione Europea, anticipata nelle pagine del nuovo libro di Bruno Vespa: una confederazione fondata su un principio di sussidiarietà per cui, per dirla con le parole della stessa Meloni, “non faccia Bruxelles quel che può fare meglio Roma, non agisca Roma lì dove, da soli, non si è competitivi”. Che tipo di Unione Europea potrebbe essere quella confederale fondata su un principio di sussidiarietà? E che differenze sostanziali presenterebbe rispetto a quella attuale?
E’ vero che Giorgia Meloni e il suo partito (Fratelli d’Italia) propongono un modello confederale per l’Unione europea. Tuttavia, non è chiaro se hanno chiaro cosa sia una confederazione. Quest’ultima si basa sul principio che ogni stato mantiene la propria piena sovranità all’interno di essa. In una confederazione non vi sono meccanismi vincolanti, ma solamente scelte volontarie di cooperazione interstatale. Se così è (ed è così), la confederazione non ha la necessità di prevedere la sussidiarietà, in quanto quest’ultima interviene a regolare processi di integrazione che hanno un carattere, o una logica, di tipo federale. Una cultura confusa genera una politica confusa.
Quale modello istituzionale alternativo dell’Unione Europea potrebbe meglio rispondere alla legittima aspettativa di una maggiore coesione fra gli stati membri, incorporando magari anche un principio di sussidiarietà, ma senza che ciò ne pregiudichi l’evoluzione in direzione di una più solida unità politica?
Un’unione politica di stati che nasce dalla loro aggregazione, deve basarsi sul riconoscimento della loro asimmetria (demografica, economica, amministrativa, militare) e della loro differenziazione (linguistica, culturale, identitaria). Per questi motivi, essa dovrebbe condividere la sovranità relativamente alle politiche che hanno a che fare con la sicurezza collettiva, preservando la sovranità degli stati membri sulle politiche che possono gestire autonomamente. Occorre combinare “shared rule” e “self-rule”. Nello stesso tempo, nelle politiche comuni (“shared rule”), il processo decisionale non può essere centralizzato in una singola istituzione (che sia il Parlamento europeo o il Consiglio europeo), ma deve essere diffuso tra più istituzioni, facendo in modo (tuttavia) da non impedire una decisione efficiente e responsabile. Ho sviluppato questo modello in diversi miei studi (da ultimo, in “Europe’s Future”, Cambridge University Press, 2019). Si tratta di costruire un’unione (composito o federale), non già uno stato (seppure\ federale).