Le liste per le elezioni politiche del 25 settembre sono state presentate. E sui giornali stanno tengono banco i commenti sulla loro composizione. Ogni valutazione sulle formazioni che i diversi partiti hanno deciso di mettere in campo non può tuttavia prescindere da un’importante considerazione preliminare. La riforma costituzionale che ha ridotto drasticamente il numero dei parlamentari, è il vincolo che ha maggiormente condizionato il processo di selezione delle candidature (al di là di ogni ragionevole soluzione di taglio, come è chiaramente possibile vedere confrontando la consistenza numerica del nostro parlamento rispetto a quello delle altre principali democrazie occidentali europee). Lo si poteva prevedere, e forse si sarebbe dovuto sostenere con maggiore forza e determinazione durante la campagna elettorale del referendum confermativo, che l’esito finale di una simile riforma – il cui unico intento era chiaramente demagogico – sarebbe stato il rafforzamento dei gruppi dirigenti centrali dei partiti, il loro arroccarsi all’interno dei rispettivi inner circle di fedelissimi, la stretta delle candidature in chiave di preservazione dell’esistente, e quindi di riconferma dell’attuale ceto politico burocratico che governa le organizzazioni politiche.
Qualcuno ci aveva spiegato (il Movimento 5 Stelle con grande enfasi, il Partito democratico più dimessamente) che la riduzione del numero dei parlamentari avrebbe avuto come conseguenza automatica il miglioramento della qualità di nostri rappresentanti, che dovendosene scegliere meno sarebbero stati scelti meglio, che si sarebbe verificata una corsa alle competenze per assicurare alle liste la maggiore attrattività possibile in vista della competizione elettorale. Tutte frottole, assolutamente prive di fondamento empirico. La semplice conoscenza empirica delle dinamiche di funzionamento dei partiti politici, in Italia come nel resto del mondo occidentale, sarebbe bastata a mettere in guardia un elettorato non abbacinato dalla demagogia di una politica come quella nostrana ormai drogata di populismo a basso costo. La riduzione dei seggi in lizza, come prima inevitabile conseguenza, non avrebbe potuto che generare una reazione eguale e contraria nella classe politica esistente, coerente con una del tutto plausibile logica di autotutela. Per dirla altrimenti: meno seggi disponibili uguale meno spazio per la cosiddetta società civile, così come meno opportunità per un eventuale ricambio dei rappresentanti. E a ciò andrebbe anche aggiunto un ulteriore corollario: maggiore controllo della rappresentanza parlamentare da parte delle leadership partitiche, ovvero meno posti in Parlamento uguale più controllo da parte di chi deve comporre le liste, che da dominus assoluto da cui in ultima istanza dipende l’elezione o meno dei candidati, soppiantano l’autonomia della funzione parlamentare con un incondizionato atto di fede. Così, giusto per dirla in parole povere, non solo ci ritroviamo con una rappresentanza parlamentare costruita a immagine e somiglianza delle leadership partitiche e delle loro ristrette cerchie di accoliti, ma anche con eletti che dipendendo in tutto e per tutto da chi li ha candidati per farli eleggere, che proprio per questo vedono ridotta al lumicino la loro autonomia personale, non perché delegata al partito di appartenenza (che sarebbe già una buona cosa!) ma in quanto alla berlina delle idiosincrasie del leader di turno.
Inoltre, ci era stata fatta la promessa (più dal PD che dai 5Stelle, i quali ritenevano risolutiva la semplice riduzione del numero dei parlamentari) che una volta approvata la riforma costituzionale si sarebbe cambiata la legge elettorale in modo da favorire una più equilibrata rappresentanza elettiva. Ma poiché la legge elettorale è restata quella che era (un unicum per quanto sconclusionata e fallimentare, nel panorama delle democrazie occidentali, con buona pace del suo artefice, Ettore Rosato!), oggi ci ritroviamo con un ulteriore regalo, e cioè candidature “paracadutate” in giro per l’Italia al fine di assicurare l’elezione dei candidati che ogni partito considera irrinunciabili. E se ciò non bastasse, nel caso di candidature plurime, la scelta del collegio di rappresentanza qualora eletti viene riservata alla sorte, giusto per confermare l’assoluta irrilevanza del legame fra eletto e collegio di riferimento.
Rispetto a queste premesse, non può sorprendere il fatto che le liste elettorali siano per lo più composte da persone vicine ai leader di partito, parlamentari uscenti, qualche fedelissimo amministratore locale e rarissimi esponenti della società civile, per lo più reclutati con la funzione di rappresentare degli utili orpelli dall’elevata valenza simbolica.
Come troppo di frequente avviene con i giovani under 35, prescelti più per ragioni anagrafiche che in virtù di esperienze politiche concretamente rappresentative. E tutto ciò, ovviamente, non favorisce in alcun modo un ritorno di legittimazione della politica e dei partiti agli occhi dei cittadini. Anche se questo aspetto non sembra preoccupare nessuno: né i partiti populisti, che hanno tutto da guadagnare da una maggiore disaffezione politica, grazie alla quale vedono i loro consensi accrescersi continuamente (e che grazie alla demagogia dei loro leader possono almeno per ora considerarsi immuni dalle critiche che gli elettori rivolgono agli altri partiti); né i cosiddetti partiti mainstream, che sembrano più preoccupati di rimare arroccati a difesa di una concezione puramente formale della rappresentanza democratica di quanto non lo siano di contrastare le critiche del populismo andando alla ricerca di nuovi consensi. Certo, la pressoché totale indifferenza delle forze politiche nei confronti del crescente distacco che li separa dai cittadini trova una condizione favorevole in una società in cui, dal popolo alle classi dirigenti, imperativo d’obbligo sembra essere sempre più la banalizzazione dei problemi o la degenerazione del confronto dialettico in rissa, dall’economia alla politica, dal lavoro all’impresa. Il rifiuto categorico di ragioni, argomenti, giustificazioni minimamente qualificate o articolate a sostegno di questa o quella soluzione politica è ormai tratto comune e condiviso di ogni tipo di discussione pubblica, a prescindere dall’interlocutore di riferimento, sia esso l’uomo della strada o un esponente delle cosiddette élite (manager, dirigente, imprenditore, sindacalista, giornalista ecc.).
In queste condizioni diviene davvero difficile criticare la formazione delle liste elettorali senza rischiare di cadere nella stessa banale demagogia del discorso pubblico dominante. Pertanto non è chiaro se sostenere che un partito dovrebbe scegliere i propri candidati per il Parlamento servendosi di regole trasparenti, in grado di giustificare le scelte in ragione di alcuni semplici principi (la rappresentatività, il rapporto con il territorio, la competenza ecc.), nel tritacarne delle includenti discussioni di oggi, verrebbe preso per dire una cosa ingenua o banale. Tuttavia è chiaro, e forse non necessita nemmeno di particolari spiegazioni, che una prima semplice via per cercare di ricostruire un rapporto di fiducia fra elettori ed eletti consista nel rendere chiare le ragioni a fondamento della scelta delle candidature, nel creare un maggiore legame fra candidati e territori che lo esprimono, nel giustificare scelte al di fuori della rappresentanza territoriale in nome delle competenze o di altre motivazioni (come la natura simbolica e testimoniale della candidatura) che possano essere chiaramente comprese dagli elettori. Tutto ciò sembra piuttosto semplice da fare, ma al momento non vi è ancora nessun partito italiano che abbai scelto di farlo.