Secondo movimento, andante – mosso
A difendere la scuola di stato furono molti intellettuali e soprattutto i socialisti che rivendicavano la paternità della riforma che introduceva il cosiddetto Corso Popolare (V e VI elementare). Con questo, però i socialisti accettarono l’impostazione classista della scuola considerando che solo la scuola elementare potesse interessare al popolo. Cosi, non videro per nulla la possibilità di formare una nuova classe dirigente che provenisse dai ceti popolari. Tale condotta facilitò la politica dei conservatori i quali puntavano alla netta divisione tra una scuola disinteressata e formativa per la classe dirigente e una scuola utilitaria per il popolo.
Critica e opposizione di Gramsci in seno all’educazione
Secondo Antonio Gramsci l’uomo consiste in una formazione storica ottenuta con la forza. Questa convinzione presuppone, prima di tutto, una critica radicale a qualsivoglia forma di innatismo per ridurre al minimo i cosiddetti elementi naturali e per osservare sotto altro profilo il rapporto uomo-ambiente. Quello che spesso indichiamo come forze o disposizioni naturali dell’individuo, non sono altro che formazioni storiche derivanti da un procedimento che ci è ancora sconosciuto.
Gramsci è convinto che si debba attribuire all’atavismo molta parte di ciò che è storico e acquisito nella vita sociale che, come ricorda, inizia subito dopo la venuta alla luce dal grembo materno. Di conseguenza, non bisogna essere precipitosi nel riconoscere tendenze e disposizioni, nei bambini, perché anche esse di origine storica, e dunque, tanto meno stabili quanto più piccolo è il soggetto. Queste tendenze sono passeggere e non possono costituire la base per l’educazione in quanto non sono che il riflesso di situazioni storiche in cui i piccoli sono vissuti. La psicologia, le condizioni, lo sviluppo e l’evoluzione culturale di un contadino, per dirla alla Gramsci, sono diverse da quelle di un ragazzo nato e cresciuto in città perché, è evidente, diverso è l’ambiente nel quale hanno iniziato la loro formazione. L’attivismo si è fermato a considerare il problema degli impulsi, nel solo rapporto con l’ambiente, ponendo l’accento sull’influenza esercitata dai conflitti psichici sul modo di organizzare la vita esterna e non ha visto l’influenza che il modo di organizzare il lavoro, il gioco, ha sulla vita psichica. Gramsci cerca di dimostrare come sotto gli interessi che riteniamo spontanei c’è, in realtà, una base storica.
Gli studi e le indagini della psicologia contemporanea hanno chiarito che quanto avviene in natura e quanto in funzione delle esperienze, mostrano che tendenze e interessi non dipendono solo dall’accrescersi delle forze e delle capacità proprie dell’individuo ma anche dell’ambiente, nel quale il soggetto è cresciuto. E dunque il problema dell’interesse acquista un nuovo significato e si configura in una visione più ampia che illumina l’origine storica dell’interesse stesso. Ecco che, allora, l’interesse non è più un qualcosa di assolutamente individuale e la scuola per essere in grado di suscitare interessi, deve essere legata alla vita, perché il problema non è di suscitare interesse individuale, ma di avere una scuola che, rispecchiando le esigenze della società, sia in grado di promuovere e sviluppare la formazione delle giovani generazioni. Cosi, Gramsci pensa che compito dell’adulto non è quello di seguire gli impulsi dello studente, ma di guidare la lotta che il ragazzo deve condurre per dominare i propri istinti e le proprie forze elementari: “Ogni generazione educa la nuova generazione (…) per creare l’uomo attuale alla sua epoca”[1]. Sicuramente da queste premesse, nasce la polemica gramsciana nei confronti della spontaneità e la natura umana, intesa astrattamente e metafisicamente.
Per il pensatore sardo, la natura umana non è quella immediata di cui parla Rousseau, ma quella storica costituita dai rapporti sociali storicamente determinati come egli stesso li definisce. Gramsci è consapevole che l’idea della spontaneità dipende dalla concezione che si ha del bambino, considerando che nel bambino, ci sia in potenza tutto l’uomo e che, compito dell’educatore, è quello di sviluppare ciò che di latente c’è in lui. È evidente che l’educazione è concepita, in questo caso, come uno: “Sgomitolamento di un filo preesistente”[2]. Se a questo aggiungiamo una visione ottimistica della natura umana, potremmo renderci conto di come l’educazione venga ridotta alla rimozione degli ostacoli che possono turbare il naturale evolversi del bambino e al superamento del contrasto tra individuo e società, tra uomo e cittadino. Infine, se ci affidiamo all’esistenza di valori naturali in contrapposizione a quelli storici, non resta che isolare “l’educando”, dalla società, come fece Rousseau, al quale Gramsci fa risalire l’origine di questa concezione pedagogica. Secondo il filosofo svizzero, lo ricordiamo, compito dell’educatore è di non agire, di perder tempo, di lasciare che la natura operi spontaneamente. È evidente, ma non è questo il luogo per approfondire, che Rousseau risolve il problema dell’educazione in autoeducazione o come, successivamente diranno Capponi ed Hessen, in etero-educazione e neanche questo è il luogo per riconoscere Rousseau quale fondatore della scuola “attiva” o colui che ha unificato i frammenti di un rinnovamento pedagogico in atto da tempo.
Altresì, la sua concezione della natura umana e dell’individuo come persona fuori dalla società, sono argomenti che, testimoniano come nei suoi fondamenti la pedagogia roussoniana, sia di indirizzo libertario e metafisico. Antonio Gramsci respinge il concetto di educazione negativa anche per i primi anni di vita scolastica, perché ciò equivarrebbe a chiudere ogni individuo nel proprio mondo, nella propria circoscritta esperienza e quindi significherebbe cristallizzare la situazione sociale esistente condannando i meno favoriti dalla sorte a essere rinchiusi nella loro filosofia primitiva, nel folklore, mentre compito della scuola è quello di superare ciò che di superstizioso, di arretrato c’è nella concezione del mondo del bambino per portarlo a una visione storicistica e razionale della vita.
Lo stesso Gramsci, però, riconosce il grande merito storico del naturalismo pedagogico e, in generale, dell’attivismo in particolare, come reazione violenta alla scuola e a i metodi dei gesuiti, ma ritiene che si sia andati oltre quella che era la fase rivoluzionaria e di entusiasmo romantico e che ora è necessario giungere a una più pacata riflessione sui problemi educativi; ci si addentra nella fase classica per seguire nuovi metodi, per non perdere di vista lo scopo supremo dell’educazione. La battaglia dell’attivismo non si deve esaurire sono nella ricerca di nuove tecniche educative, ma prende in considerazione anche il problema di nuovi contenuti, senza lasciare tutto alla spontaneità del discente, al quale non si nega il diritto di partecipare attivamente alla propria formazione. Da evidenziare che questa partecipazione evolve in modo parallelo alla capacità di autonomia che lo studente a mano a mano acquisisce con il lavoro (studio/esperienze) e che non ha, evidentemente, come dono di natura.

Senza negare il valore dell’educazione indiretta, Gramsci pone l’accento sull’importanza dell’educazione diretta, quella guidata dal maestro, cercando di ristabilire un corretto rapporto educativo, un rapporto che l’attivismo ha solo rovesciato. Come ha osservato Sergej Hessen, “Nella vera educazione nuova, il centro autentico è costituito dalla personalità dell’uomo che, nel bambino, è ancora, in gran parte, latente”[3].
Dal canto suo, Gramsci insiste sul dovere che la generazione adulta ha, di educare i giovani e, riconosciuta giusta la lotta che l’attivismo ha condotto per liberare il bambino da metodi pedanti e ritenuto ormai acquisito il principio della partecipazione attiva dello studente al processo educativo, precisa che la scuola attiva non può identificarsi con la scuola senza contenuti, senza prospettiva, il cui insegnamento, riprendendo Hessen, dovrebbe dirigersi solo verso ciò che interessa il bambino e dare risposta a ciò che egli domanda, e non imporgli la cultura oggettiva degli adulti. Il problema didattico non sta nell’abolire l’indirizzo dogmatico, ma quello di temperarlo e limitarlo ai primi anni della scuola. I limiti della scuola tradizionale, dunque non andavano ricercati nella presenza di contenuti dogmatici, ma nell’assunto che quei contenuti non rispondevano più alle esigenze storiche della società.
Una scuola che vuole offrire ai suoi studenti gli strumenti culturali per progredire autonomamente nella ricerca e nella vita, non può non essere dogmatica. Quando si trasmette l’eredità culturale del passato, a cominciare dai simboli dell’alfabeto, non è possibile evitare un certo dogmatismo, sia pur, per cosi dire, dinamico. In questa direzione, Lamberto Borghi[4], in un suo intervento critico sul concetto di educazione e scuola in Antonio Gramsci, pur cogliendo molto bene il pensiero pedagogico gramsciano, in realtà non chiarisce del tutto che l’alternativa non è tra libertà e autorità, ma tra autorità democratica, che tende alla conquista dell’autonomia e autoritarismo che forma uomini rassegnati e ribelli.
Gramsci, dunque, riconosce e accetta la necessità di creare attorno al bambino, un ambiente stimolante che lo porti a muovere le mani e l’intelligenza; pur tuttavia, ritiene che non tutto può svilupparsi nella mente del bimbo per contatto con l’ambiente, pensa, allora, che sia utile e doveroso l’intervento dell’adulto per spingere sempre più in avanti gli interessi del bambino e per determinare quella crescita morale e spirituale, oltre che fisica, senza timore che ciò possa costituire una violazione dei diritti dell’infanzia.
A riguardo, John Dewey, osserva che il problema particolare delle prime classi è pur certo quello di dominare gli impulsi e gli istinti naturali del piccolo studente, “Per corredarlo di abiti efficienti”[5], anche se in lui la preoccupazione della libera conquista individuale prevale sull’esigenza della trasmissione dei contenuti culturali. Qui Gramsci si impunta sul “maestro” perché pensa che, abbandonando il bambino a se stesso, in nome di una falsa spontaneità, si corre il rischio di lasciarlo esposto alla violenza dell’ambiente incontrollato, ben peggiore dell’attenta e consapevole opera dell’educatore.
Al centro del suo interesse pedagogico c’è sempre il ragazzo del popolo, la scuola delle masse che deve essere portata al livello delle élite, mediante l’esercizio rigido e costante dello studio. Dunque, l’esigenza della libertà, morbosamente dilatata, deve essere circoscritta in confini più definiti, per evitare che si risolva nel lasciare lo studente immerso nella natura e nel folklore. Gramsci ipotizza il pericolo che la battaglia dell’attivismo conduca a un vuoto educativo, non riesca, cioè, a elaborare contenuti nuovi che, al contrario, sembra trascurare, chiudendo la propria opera in un’azione solamente negativa, per cui è più utile per vedere ciò che non occorre fare, che per altro.
[1] A. Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, 1965, pag. 119
[2] Ibidem, pag. 314
[3] S. Hessen, Struttura e contenuto della scuola moderna, Avio, 1957, pag. 151
[4] Lamberto Borghi, scrittore, filosofo e docente, ha scritto diversi saggi relativi alla scuola e alla pedagogia. Tra i tanti ricordiamo: Educazione e autorità nell’Italia moderna; Presente e futuro nell’educazione del nostro tempo; Educare alla libertà; La città e la scuola.
[5] J. Dewey, Scuola e società, La nuova Italia, 1957, p. 98