In Italia la ricorrenza del Carnevale tende ad assumere un suo significato proprio peculiare, che la rende per molti versi differente dal resto del mondo.
Secondo la teologia cattolica, trattandosi il Carnevale di una festività religiosa, esso sarebbe meramente in funzione della Pasqua, celebrata come la Risurrezione di Cristo dopo la Passione. Pertanto, il suo scopo è unicamente di aprire, con la ricorrenza del “Martedì Grasso”, un periodo di riflessione e penitenza della durata di quaranta giorni, definito “Quaresima” che culmina nelle festività primaverili.
Nel Bel Paese, però, col tempo questa ricorrenza (tradizionalmente minore) ha acquisito un significato tutto suo, arrivando quasi a una sorta di “indipendenza” che l’ha elevata, per certi versi, a festa popolare non dissimile da quelle di fine anno. Molte città, da Milano dove viene festeggiato in anticipo, alla sfarzosa parata di carri di Viareggio, alle tradizioni di tutto lo Stivale, di cui è regina incontrastata Venezia. La Serenissima, la città sull’acqua dove, ancora oggi in questo periodo, è possibile ammirare caroselli di maschere, abiti, piume, cappelli e parrucche settecentesche che, irte di merletti e ricami, fanno bella mostra di sé in giro per la città.
La ragione per cui, ancora oggi, il periodo del Carnevale è tanto sentito affonda le sue radici in tempi lontani, alla corte dei Serenissimi Principi (detti, gergalmente, “dogi”). Quando, dopo il 1229 con la fondazione del Senato, la Repubblica assunse l’assetto che l’’avrebbe circa caratterizzata fino al 1797, si delineò infatti per i governanti la necessità di compattare lo stato. Ciò poteva avvenire sia con misure di espansione (la fondazione dei “Domini da mar”, ossia “colonie” della Repubblica sparse nell’Adriatico) che con veri e propri strumenti di controllo dell’opinione pubblica. Questi ultimi, vere e proprie armi a disposizione del Senato e del Doge, si configurarono nel tempo come un vero e proprio ufficio di censura che andava ad agire, tra le altre cose, sul controllo dei giornali.
L’unico momento in cui questo non accadeva era proprio durante la settimana del Carnevale, che rappresentava dunque un momento di sfogo. Era, infatti, possibile dileggiare i potenti eleggendo un popolano a “re del carnevale”, criticare aspramente le politiche pubbliche, dire ciò che si voleva in libertà. Non è, infatti, un caso che le due maschere più conosciute del carnevale veneziano siano, accanto al celeberrimo “medico della peste”, la Servetta Muta e la Bauta. Sia l’una che l’altra riuscivano, infatti, a celare il volto, e la Servetta, che andava tenuta con un pezzo di legno da reggere tra i denti, impediva addirittura di parlare. Questo perché, accanto alla gioia di poter finalmente vivere liberi dalle maglie della censura, esse simboleggiavano anche la possibilità di nascondersi, e la garanzia assoluta della riservatezza e del silenzio.