Possiamo definire la delocalizzazione produttiva come quel fenomeno per effetto del quale le imprese scelgono di andare a produrre in Paesi dove i costi risultano essere più bassi, in particolare quello del lavoro.
Si tratta di un fenomeno, collegato alla cosiddetta “globalizzazione”, che è stato teorizzato, per la prima volta nel 1752 dal filosofo David Hume il quale, nel saggio “Sulla moneta”, ne argomentava già con queste parole: “Le manifatture spostano gradualmente le loro sedi dove sono attratte dal prezzo modesto delle merci e del lavoro”. Al fine di comprendere i vantaggi e gli svantaggi di tale fenomeno, che serba radici lontane nel tempo, giova sottoporre a lente di ingrandimento diversi aspetti: l’imprenditore si determina a spostare la propria produzione all’estero in quanto viene attratto dalla possibilità di ottenere vantaggi economici; le imprese fondano i propri calcoli di valutazione ricorrendo a fattori di costo e a fattori di prodotto-mercato nonché, dunque, alla semplice convenienza che ne deriva rispetto al Paese di origine. In altri termini, spostando altrove la produzione, le attività industriali si trovano ad operare, nel complesso, per costi minori: riducendo i costi di produzione, usufruendo di materie prime nel luogo di destinazione, disponendo di manodopera a basso costo ed ottenendo, in taluni casi, il superamento delle barriere commerciali.
Da tutto ciò può ricavarsi, almeno ad un primo sguardo distratto, un vantaggio netto non soltanto per gli imprenditori, bensì anche per i consumatori, i quali potrebbero trovarsi ad acquistare i prodotti a prezzi decisamente più bassi. Un indiscutibile beneficio pare ricadere pure su quei Paesi nei quali le aziende scelgono di andare a produrre, specialmente se tale meccanismo riesce a tradursi in maggiore lavoro a vantaggio della popolazione locale, economicamente e socialmente povera. A margine di aspetti apparentemente soltanto positivi, tale fenomeno, ormai dilagante, restituisce qualche “effetto collaterale”: infatti, il territorio che perde le produzioni subisce una contrazione dei lavoratori impiegati, almeno in quel settore, e perde competitività strutturale; ciò incide negativamente sul sistema economico e sociale del Paese d’origine. Oltre a questo, devono aggiungersi, per chi opera, i rischi connessi alla perdita del controllo della qualità ed i rischi di trasferimento del know-how, unitamente al cosiddetto “rischio Paese” che, così definito da Meldrum, deve intendersi come “l’insieme dei rischi prevalentemente imputabili alle differenze di tipo politico, economico e sociale esistenti tra il Paese originario dell’investitore e il Paese in cui viene effettuato l’investimento”.
Gli effetti negativi del trasferimento produttivo, che ha certamente subito un’accelerazione impressionante nell’ultimo decennio, purtroppo non finiscono qui: essi, infatti, si disvelano non soltanto quale arma di ricatto e di sfruttamento del lavoro, bensì emergono incontrovertibilmente nel momento in cui violano in modo chiaro i precetti del nostro assetto costituzionale. Se infatti, volgendo lo sguardo all’articolo 41 della Carta costituzionale, da un lato si desume che “l’iniziativa privata è libera”, il comma successivo provvede a correggere il tiro sostenendo che essa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”. Giova, a questo punto, domandarsi: come è possibile scoraggiare il fenomeno della delocalizzazione produttiva, ripristinando un contesto in cui la produzione si svolga maggiormente nel Paese originario? La soluzione, tutto sommato, sembra a portata di mano: tassando la reimportazione dei prodotti delocalizzati o dei quali i proventi non vadano a beneficio delle economie locali. Ove ciò accadesse, il “modus operandi” presto finirebbe, posto che, a quel punto, sarebbe svuotato di ogni vera utilità. In linea con i dettami costituzionali ed operando in contrasto con la delocalizzazione produttiva, pare ultimamente aprirsi uno spiraglio con il decreto-legge cosiddetto “Aiuti Ter” – ultimo atto del governo Draghi – che prevede una serie di sanzioni indirizzate a quanti decidano di procedere alla “delocalizzazione selvaggia”.
Per concludere, gli impresari che fossero intenzionati a chiudere la propria attività avanzando motivazioni poco realistiche e senza provvedere a tutelare i lavoratori saranno costretti a rendere al mittente i benefici ricevuti: seguendo tale criterio, la decisione di allontanarsi dall’Italia non verrebbe più incentivata tranne quando dovesse manifestarsi un contesto di crisi economica. Le imprese dovranno anche fornire garanzie ai lavoratori licenziati, impegnandosi a sottoscrivere con i sindacati un piano per tenere a freno le ricadute occupazionali che inevitabilmente deriverebbero dalla chiusura del sito industriale.